DELLA COMPLESSITA' INTRINSECA DEL DIRITTO DEL LAVORO: DAL D.L. 104/2020 E LE SUE DIFFICOLTA' APPLICATIVE AL D.L. 137/2020 TRA DIRITTO ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO DI LAVORO E IMPOSSIBILITA' SOPRAVVENUTA - ECCESSIVA ONEROSITA'

01.11.2020

Adriana Fabrizio

Il Governo è intervenuto, nel mese di agosto, per apportare, ancora una volta, delle modifiche all'originario art. 46, d.l. 18/2020, che si occupa dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ex artt. 3, l. 604/1966 e dei licenziamenti collettivi ex artt. 4, 5 e 24, l. 223/1991.

In tale breve trattazione ci si soffermerà su quelle che sono le novità in ambito di ammortizzatori sociali per i lavoratori rimasti fermi durante l'emergenza (artt. 1 e 3, d.l. 104/2020), dei divieti di licenziamento ivi previsti (art. 14), con le modificazioni intervenute a seguito del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, e delle sue difficoltà applicative, anche alla luce dell'eventuale configurabilità dell'impossibilità sopravvenuta e dell'eccessiva onerosità della prestazione.

La prima proroga all'art. 46 era stata introdotta proprio con il d.l. 34/2020 (c.d. decreto Rilancio), ad agosto, all'indomani della scadenza della proroga del blocco dei licenziamenti fino al 17 agosto 2020; la novità, che di fatto complica il quadro preesistente, sta nel fatto che non solo la data viene ulteriormente prorogata con il decreto 14 agosto 2020 n. 104, ma questa proroga rende il termine mobile: gli artt. 1 e 3 mettono a disposizione dei datori di lavoro degli strumenti che modificano, a seconda della scelta, la data da cui i licenziamenti potranno partire; questi sono:

  • Art. 1: AMMORTIZZATORI SOCIALI

Questo primo strumento potrà essere utilizzato entro il 31 dicembre 2020, per un massimo di 18 settimane. Tali ammortizzatori sociali consistono nella cassa integrazione ordinaria e nell'assegno di cassa integrazione in deroga "di cui agli articoli da 19 a 22-quinquies del decreto-legge 17 marzo 2020, n.18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 e successive modificazioni, per una durata massima di nove settimane, incrementate di ulteriori nove settimane secondo le modalità previste al comma 2".

  • Art. 3: AGEVOLAZIONE CONTRIBUTIVA

Il secondo strumento offerto è quello di un esonero dal versamento dei contributi previdenziali, fruibile per un massimo di quattro mesi, sempre fino al 31 dicembre 2020 nei "limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite" nei mesi di maggio e giugno.

Come si può notare, l'unica data che segna un punto fermo è quella del 31 dicembre 2020, lasciando però la possibilità ai datori di lavoro, dopo aver usufruito delle suddette agevolazioni, di poter liberamente licenziare per giustificato motivo oggettivo, quanto di procedere ai licenziamenti collettivi, con la peculiarità di poterlo fare in date sensibilmente diverse; si noti come l'art. 3 fissi un periodo massimo di fruizione dell'esonero contributivo pari al doppio delle ore di cassa integrazione utilizzate nel periodo tra maggio e giugno 2020; questo periodo segna il dies a quo da cui è possibile cominciare a licenziare, e nel caso in cui il datore abbia utilizzato, nel suddetto periodo, poche ore di cassa integrazione, potrà cominciare a licenziare molto presto; una scelta di opportunità, sicuramente, ma decisamente una norma che non tutela adeguatamente i lavoratori!

Le criticità di questo decreto però riguardano anche e soprattutto i divieti di licenziamento previsti dall'art. 14.

I primi due commi stabiliscono i casi in cui è vietato il licenziamento:

  1. MANCATA FRUIZIONE DELLE AGEVOLAZIONI ex art. 1

Il primo comma non permette né i licenziamenti ex art. 4, 5 e 24,legge 223/1991 (licenziamenti collettivi) né quelli ex art. 3, legge 604/1966 (licenziamenti per giustificato motivo oggettivo) se non sono state utilizzate le agevolazioni di cui all'art. 1; rimangono altresì sospese le procedure avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, salva l'ipotesi contemplata nell'ultima parte del primo comma, per cui il personale sia reintegrato a seguito di successione "di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto", ipotesi questa già prevista precedentemente dalla l. 27/2020 e riprodotta nell'attuale decreto.

  1. BLOCCO DEI LICENZIAMENTI ex art. 3, l. 604/1966 E SOSPENSIONE PROCEDURE ex art. 7, l. 604/1966

Questi divieti sono previsti nel secondo comma, alle medesime condizioni del primo.

Il terzo comma contempla invece una disapplicazione di tali divieti e sospensioni in tre specifici casi:

  1. CESSAZIONE DELL'ATTIVITA', SENZA CONTINUAZIONE, ANCHE PARZIALE, DELLA STESSA, CON ACCESSO ALLE PROCEDURE DI LIQUIDAZIONE

Questo è il primo dei tre casi previsti nel terzo comma; il divieto di licenziamento in questa circostanza non si applicherà. È bene notare che tale cessazione è diversa dal caso in cui si configuri un trasferimento del complesso dei beni, dell'azienda o di rami di essa, ai sensi dell'art. 2112 c.c., casi che invece, rimangono esclusi da tale divieto.

  1. ACCORDO COLLETTIVO NAZIONALE DI INCENTIVO ALLA RISOLUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

Questa è la seconda ipotesi di disapplicazione del divieto contemplata nel terzo comma; gli accordi sono stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi al livello nazionale e si applicano solo ai lavoratori che vi aderiscono, fermo restando il riconoscimento, ad essi, del trattamento di cui all'articolo 1 del d.lgs 22/2015.

  1. FALLIMENTO SENZA ESERCIZIO PROVVISORIO DELL'ATTIVITA'

È l'ultimo degli scenari previsti dal terzo comma; i licenziamenti intimati in tale situazione non rientrano nel divieto imposto dai primi due commi, salvo che alcuni rami dell'azienda, come specifica il comma terzo, continuino la loro attività: in questo caso ad essi non si applicherà tale comma.

Il quarto comma chiude l'art. 14 prevedendo il RIPRISTINO DEL RAPPORTO DI LAVORO se, a seguito di un licenziamento intimato ex art. 3, l. 604/1966, nell'anno 2020, il datore di lavoro revochi, in qualsiasi momento, il recesso dal contratto di lavoro, in deroga all'art. 18, co. 10, l. 300/1970, richiedendo contestualmente la cassa integrazione a norma degli art. 19 e 22-quinquies, d.l. 18/2020, convertito in l. 27/2020, a partire dalla data di efficacia del licenziamento stesso; in tal caso il rapporto sarà ripristinato senza soluzione di continuità e non saranno previsti né oneri, né sanzioni a carico dei datori che optano per quest'opportunità.

Si deve poi segnalare la recentissima modifica del decreto 104/2020 con il d.l. 137/2020 (c.d. decreto Ristori); questo intervento, in ragione del protrarsi della situazione di emergenza, ha prorogato il termine per il divieto di licenziamento dal 31 dicembre 2020 al 31 gennaio 2021, prorogando contestualmente la cassa integrazione ordinaria e in deroga di ulteriori sei settimane (fruibili a partire dal 16 novembre) per tutte quelle imprese che abbiano esaurito la precedente cassa integrazione, nonché per quelle che abbiano subito chiusure o limitazioni delle attività.

È stato ulteriormente disposto che la cassa integrazione sia gratuita per due categorie di imprese: quelle, avviate dal 1° gennaio 2019, che abbiano subito una perdita pari o superiore al 20% del fatturato e quelle che abbiano subito le predette restrizioni.

Anche questo decreto prevede un esonero contributivo per queste imprese, per un periodo massimo di quattro mesi, fruibile fino al 31 maggio 2021, tenendo conto della perdita di fatturato: se questa sarà inferiore al 20% l'esonero è previsto al 50%, se dovesse invece essere pari o superiore a detta soglia, l'esonero sarà totale.

Infine, la legge di bilancio per il 2021 prevederà un ulteriore proroga della cassa integrazione gratuita di ulteriori dodici settimane, che si sommeranno alle sei previste nel decreto Ristori, che si estenderà fino a metà o forse fine marzo.

La normativa è, nel suo complesso, abbastanza farraginosa e ricca di rinvii; ciò che è evidente, ad una prima lettura, è l'intento del legislatore di cercare di contemperare gli interessi contrapposti dei datori di lavoro e dei lavoratori, nella complessa situazione generata dal Covid-19: da un lato i datori, con l'esigenza di tagliare i costi del lavoro in un periodo in cui si è lavorato molto poco, subendo gravi perdite, in taluni settori, tutelati tramite la previsione di termini iniziali di licenziamento flessibili e, dall'altra, la conservazione del posto di lavoro da parte dei lavoratori dipendenti grazie ad una serie di ammortizzatori ed agevolazioni che permettono di rinviare il licenziamento, ma che, paradossalmente, sono gli stessi che, una volta esauriti, permettono quest'ultimo; una tale complessa costruzione pone problemi che vanno anche oltre il diritto del lavoro, per approdare addirittura alla teoria generale del contratto nel diritto civile: è possibile risolvere o modificare un contratto a causa del Covid-19? Può esso considerarsi causa di impossibilità sopravvenuta o di eccessiva onerosità?

Se la disciplina contrattualistica permette siffatta soluzione, tramite una lettura combinata degli artt. 1467 c.c. sull' eccessiva onerosità, 1256 c.c. sull'impossibilità sopravvenuta e 1375 c.c. che sancisce il principio di buona fede nell'esecuzione della prestazione, di guisa che sia possibile invocare l'eccessiva onerosità piuttosto che l'impossibilità sopravvenuta grazie ad un'operazione ermeneutica affidata all'interprete, nella disciplina lavoristica invece, come si può notare da quanto detto fino ad ora, il legislatore è intervenuto a più riprese, partendo proprio dal decreto 18/2020 (c.d. Cura Italia) per tutelare la parte tradizionalmente più debole del contratto, il lavoratore, dettando una disciplina che lascia ben poco spazio all'interpretazione, indicando dei casi tassativi di obblighi, divieti, sospensioni ed esoneri, a carico di un datore che, molto spesso, è messo con le spalle al muro di fronte ad un'onerosità davvero troppo eccessiva, se considerato come soggetto inserito un contesto molto complesso che contempla non solo il rapporto con il lavoratore ma anche con i terzi, con il fisco e con lo stesso apparato di norme a tutela del lavoratore e, in definitiva, con la funzione socio - economica che il nostro ordinamento impone all'imprenditore: un corto circuito tra gli articoli 4 e 41 della Costituzione!

Questa soluzione è un imperativo, se si vuole, imposto dagli articoli 1 e 4 della Costituzione, quest'ultimo, in particolare, ponendo in capo alla Repubblica il dovere di "promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto", per cui era abbastanza prevedibile che il nostro legislatore non lasciasse che la teoria generale del contratto potesse applicarsi sic et simpliciter al contratto di lavoro, che ha delle peculiarità intrinseche nella naturale disparità di forza dei suoi contraenti, tant'è che lo stesso decreto 104 prevede, per fare un esempio che renda l'idea di quanto ci si è sforzati di tutelare al massimo i lavoratori, che gli specifici accordi nazionali di risoluzione del rapporto di lavoro che, come si è già detto, comportano l'esclusione del divieto di licenziamento, siano siglati con i sindacati comparativamente più rappresentativi; definizione questa che, invero, ha creato non pochi problemi tra dottrina e giurisprudenza, fino a sfociare in un referendum che modificasse lo Statuto dei lavoratori, per stabilire, se possibile, definitivamente, cosa si intendesse per sindacati comparativamente più rappresentativi, e che merita un ulteriore approfondimento, non necessario in realtà in questa sede, ma che aiuta ancora di più a comprendere quanto complesso sia il ramo lavoristico e, di conseguenza, le scelte politiche, sociali ed economiche che ci sono dietro la stesura di una legge di diritto del lavoro.