DIRITTO, GIUSTIZIA E VERITA’: TRICOTOMIA INCONCILIABILE O CATEGORIE DOGMATICHE COME FONDAMENTA DELL'ESPERIENZA UMANA?

01.09.2019

Dott. Matteo Cecchetti

Ancor prima del ragionamento che si rende necessario per comprendere il rapporto che intercorre tra tre concetti portanti dell'esperienza umana, il diritto, la giustizia e la verità, occorre partire da un interrogativo.

Ha senso una "filosofia del diritto"? Come può mai essere collegata infatti, la dedizione di chi si pone alla ricerca della verità con chi, invece, consacra la propria vita allo studio dei fondamenti della giustizia? L'una si è spogliata, già da parecchi secoli, della rigorosa veste "di branca del sapere scientifico", ponendosi come fattore propulsivo, esercizio di pensiero che viene prima dell'esperienza. Checché se ne dica infatti, la filosofia, soprattutto quella occidentale, considera come pietra primordiale di ogni approfondimento umano, il Logos, l'intelletto, inteso come "pensiero che dà forma alla materia" ovvero all'essere.

L'altra, invece, il diritto, mostra vanitosamente la propria etichetta di "scienza"; non potrebbe essere altrimenti visto che, dagli albori in cui il "Ius" prese forma autonoma rispetto al " Fas", nella Roma arcaica, la regolamentazione della Sociétas é avvenuta tramite l'esperienza. D'altronde è proprio lo stesso brocardo a suggerirlo: ubi Sociétas ibi Ius. Prima é la società, intesa come comunità, dopo vi é il diritto. Ius, non lex. La lex infatti, nella pura tradizione romanistica, é lo strumento finale, l'ampolla, la provetta in cui vengono raccolti i frutti dell'esperienza del Ius.

È ammissibile quindi la coesistenza di un intelletto dell'esperienza? Cartesio avrebbe dato una risposta abbastanza prevedibile e forse sostanzialmente esaustiva, ma con riferimento al diritto non appare così scontata.

La domanda si rende ancor più necessaria se si pensa che il diritto, all'interno dell'unico fenomeno sociale in cui è chiamato ad operare (tutti gli altri si autoregolano sulla base di comportamenti istintivi, ripetuti e interiorizzati da secoli di evoluzione naturale), ovvero quello umano, deve trarre le proprie regole d'applicazione da un'esperienza che è quasi sempre parziale o filtrata dall'attività dell'interprete. Dinnanzi al soggetto deputato dall'ordinamento a questo compito, ovvero il Giudice (o, più in generale, il Giurista), l'intellegibilità dell'esperienza propria del Ius, che si pone quale unico strumento in grado di scovare la reale portata della verità secolare, viene inevitabilmente intaccata dai noumeni che si producono a seguito dell'intervento di un altro intelletto che prende forma da un particolare tipo d esperienza: l'intelletto del giurista, chiamato ad esercitare la funzione giurisdizionale all'interno della controversia sottoposta alla sua cognizione. In questo caso, pertanto, il fine ultimo del diritto, ossia la ricerca della giustizia spinta dalla volontà di sancire una determinata verità tra gli uomini, non viene soltanto depotenziato a livello metafisico, ma riscontra una seria discordanza sul piano della realtà fenomenica. Tale disarmonia pone in seria crisi la convivenza di due concetti fondamentali: verità e giustizia, entrambi collocati in questo preciso ordine all'interno del periodo logico-sintattico poiché l'una deve essere necessariamente figlia dell'altra.

Sia chiaro, non si può e non si deve pretendere che la giustizia assuma su di sé l'arduo e impossibile compito che da più di 2000 anni spinge i pensatori di tutto il globo alla ricerca affannosa del senso ultimo della verità, intesa come categoria dogmatica assoluta e suscettibile di etichettatura; neanche Cristo, dinnanzi a Pilato, seppe rispondere al fatidico quesito postogli da quest'ultimo: "Che cosa è la verità?".

No, non è questo il compito del diritto e, più nello specifico, della giustizia. Tuttavia, non può negarsi che nella realtà intellegibile e secolare che gli uomini plasmano ogni giorno, la verità come prodotto ultimo delle azioni di questi, è presente e riscontrabile come concetto fenomenico ben tangibile.

E allora la domanda "Se la Filosofia, intesa come ricerca della verità può coesistere con il diritto, inteso quale applicazione della legge in funzione della giustizia" deve essere necessariamente riformulata in questi termini: "La giustizia può esimersi dal compito della ricerca della verità secolare che gli uomini, in un dato momento storico, hanno prodotto con le proprio azioni ma che non riescono o non vogliono riconoscere?".

La risposta è ovviamente no. La Giustizia, nel suo carattere sussidiario (rectius ausiliario) rispetto alla capacità di autoregolarsi propria della società in cui si trova ad operare (Prima la Sociètas, dopo il Ius), quando viene chiamata a dare risposta ai quesiti che gli uomini le pongono, deve sempre tendere all'adempimento di quel sacro compito che consiste essenzialmente nello scovare gli elementi che rendono vero quel determinato fatto umano investito dall'accertamento giurisdizionale o dall'attività ermeneutica dell'interprete.

Per esempio, quando l'operatore del diritto valuta la portata e la gravità di un inadempimento all'interno del sinallagma contrattuale, al fine di pronunciare la risoluzione dello schema pattizio predisposto dalle parti, esso non si limita ad applicare asetticamente gli strumenti contenuti nel codice civile per sancire una normale conseguenza giuridica di un comportamento tenuto da una delle parti. Ciò che il Giudice in questo caso pone in essere è qualcosa di più profondo. Quest'ultimo infatti è chiamato ad intervenire per porre rimedio ad una situazione patologica creatasi nel contesto precipuo e fisiologico in cui i rapporti della Società vengono in rilievo: l'autonomia negoziale. E' come se si fosse venuta a creare una crepa all'interno del funzionamento della realtà sociale, un vulnus che potrà essere cicatrizzato solo dall'intervento del Giurista. Quest'ultimo, infatti, attraverso la ricerca della verità posta alla base dell'equilibrio convenzionale originario, non si sostituirà alle parti nella prospettazione del contratto, ma tramite la pronuncia di risoluzione per inadempimento dello stesso, renderà giustizia sancendo una prodromica realtà fattuale che è stata vulnerata e che deve essere tutelata tramite la cessazione di un rapporto oramai divenuto esiziale per la Società. In altri termini, pronunciare la risoluzione del contratto per inadempimento non significa soltanto riconoscere l'esistenza di un comportamento considerato come causa dell'inadempimento; significa altresì riconoscere concettualmente e concretamente quell'assetto di verità che le parti avevano in principio posto alla base del proprio accordo. In caso contrario, il diritto assumerebbe il mero compito di un chirurgo che deve suturare frettolosamente le ferite riportate dai pazienti, senza minimamente indagare ed eventualmente eliminare la causa della patologia.

Ovviamente, non è difficile immaginare come tali considerazioni possano prestare il fianco alle veementi critiche da parte di coloro che si adeguano allo stretto positivismo. Tuttavia, se si vuole concepire il diritto come strumento per la ricerca della verità o di una verità, ancorché solo secolare, si deve necessariamente portare il discorso su un piano differente rispetto a quello della vigenza della norma giuridica positiva. Si deve cioè indagare il piano intellettuale e primigenio dell'esperienza nel quale il Ius si trova ad agire, ovvero quello dell'essere che si atteggia ad animale sociale. La Società, infatti, intesa nell'accezione aristotelica che la vede composta di una pluralità di individui che insieme tendono ad uno scopo comune (mantenendo però le rispettive peculiarità), nel tentare di riconoscere delle regole immutabili ed immanenti che rappresentino il volto di una determinata verità posta a fondamento di un preciso fenomeno umano, predispone anche gli strumenti volti alla tutela e alla ricerca di questo sostrato ineliminabile: in particolare, la giustizia come prodotto ultimo dell'applicazione del Ius.

Argomentando in senso contrario ci troveremmo dinnanzi all'arrogante pretesa degli operatori del diritto di subordinare il dovere di rendere giustizia alla puerile soddisfazione di aver imposto la propria interpretazione spicciola, veloce e lineare al caso concreto.

La verità e la giustizia sono due strade che nascono insieme e che viaggiano tortuosamente in parallelo, ognuna con le proprie insidie, le proprie curve e i propri incroci. Tuttavia è compito precipuo di chi è chiamato ad esercitare la funzione giudicante o ermeneutica far sì che queste due strade, in un determinato istante, convergano verso un punto; tale punto sarà, quindi, il momento storico e metafisico in cui la ricerca della verità si accompagna e si realizza con l'avvento della giustizia.

Tali considerazioni in realtà rimangono ancora particolarmente sfuggenti e oscure, soprattutto perché non percepibili nell'esperienza pratica o perché filosofi e giuristi continuano a non interagire tra loro, reputandosi entrambi depositari di convinzioni monche e improduttive.

Tuttavia, é proprio un filosofo che, a mio avviso, riesce a sbrogliare l'arcano. Immanuel Kant, fornendoci una stupenda definizione del Ius, "il diritto é la pupilla di Dio sulla terra", inconsapevolmente coniuga le due vie. Dio, inteso come espressione del supremo Logos, si inserisce nel mondo attraverso lo strumento dell'esperienza sociale che prende forma nell'applicazione del Ius e che, infine, viene trasfuso nella Lex. "il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me" é la sintesi di tutto questo: l'intimo e inconsapevole bisogno, presente in ogni uomo, di attenersi a delle regole immutabili e mutevoli allo stesso tempo, sotto il supremo tetto di un intelletto che permette all'essere di esistere e di trovare, in ogni momento, una via per la giustizia.

Il diritto non nasce per essere un sapere. Il diritto è apparso nel mondo per essere l'ascia attraverso la quale abbattere le rocce fangose in cui gli uomini imprigionano la luce della verità.