Ergastolo ostativo: “nessun liberi tutti”. Verso un passo di civiltà giuridica.

01.12.2019

Avv. Teresa Gagliardi

Non è sempre facile comprendere le dinamiche sulle quali poggia il diritto penale, a maggior ragione se si tratta di fatti lesivi di diritti inviolabili delle persone e della comunità associata tutta. A dire il vero, non è poi neanche facile, soprattutto per noi tecnici del diritto, trasmettere le ragioni che stanno alla base di decisioni che appaiono, a primo impatto, una insopportabile concessione in favore di chi commette un reato, specie se efferato.

In materia di ergastolo, in queste ultime settimane si è detto tutto ed il contrario di tutto: dallo scenario di boss della mala liberi di circolare per le strade all'accusa di cedimento dello Stato alla criminalità organizzata, dai corpi martoriati di Falcone e Borsellino. Ma sono allarmi giustificati? È necessario, per quanto sia possibile provare a semplificare, senza banalizzare, il ragionamento adottato dai giudici di Strasburgo che hanno condannato l'Italia per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti in relazione ad una specifica disciplina in tema di ergastolo.

31.12.9999. Viene così indicata la parola "mai" nella casella del fine pena dei condannati all'ergastolo. Questa data che indica una pena destinata a coincidere, nella sua durata, con l'intera vita del condannato, può assumere un significato ancora più malvagio: senza speranza. Esistono, infatti, nel nostro ordinamento due tipologie di ergastolo e altrettante di ergastolani: i comuni e, accanto ad essi, i peggiori, gli ostativi. I primi, sono condannati a scontare una pena perpetua: tuttavia, conservano il diritto a che il protrarsi della pretesa punitiva dello Stato sia periodicamente riesaminata - poiché ogni personalità non è statica ma destinata a cambiare nel tempo in ragione delle esperienze vissute, soprattutto dopo anni di vita passati in carcere - e, qualora abbiano dato prova di partecipare in maniera attiva al programma rieducativo, possono progressivamente accedere a quegli istituti trattamentali per un graduale reinserimento nella società. Gli altri, i peggiori, sono destinati a scontare un ergastolo che vede preclusa qualsiasi possibilità di ritorno alla società: una pena perpetua, immutabile e sempre uguale a se stessa, da cui è possibile sottrarsi solo collaborando utilmente con la giustizia. In funzione di una presunzione legale di persistente pericolosità sociale derivante esclusivamente dall'omessa collaborazione, per essi, la possibilità di giovare dei benefici penitenziari non si collega all'effettiva partecipazione al trattamento rieducativo ed ai progressi compiuti in vista del reinserimento sociale, ma unicamente alla disponibilità ad un atteggiamento processuale che, con la rieducazione ha davvero poco a che fare. Per loro, e soltanto per loro, ogni giorno trascorso è un giorno in più e non in meno di detenzione.

Sono senza speranza. Eppur qualcosa si muove. Nell'ottobre scorso, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha rigettato il ricorso avanzato dal Governo italiano contro la sentenza Viola che è diventata così definitiva. Per i giudici di Strasburgo, dunque, l'ergastolo ostativo contemplato dal nostro ordinamento penitenziario è contrario al principio della dignità umana e, di conseguenza viola l'art. 3 della Cedu poiché in forza di una presunzione assoluta di perdurante pericolosità sociale - rigidamente ancorata al " tipo di reato" commesso e alla assenza di una fattiva collaborazione con l'Autorità Giudiziaria - priva il condannato del diritto alla speranza, ossia, della possibilità di riguadagnare, un giorno, la propria libertà. Ciò che censurano i giudici europei non è la scelta di considerare la collaborazione con la giustizia come una condizione per l'accesso ai benefici penitenziari ma di considerarla come l'unica alternativa capace di escludere tutte le altre. Le censure della Corte si concentrano infatti sulla eccessiva rigidità del binomio normativo " collaborazione con la giustizia - ravvedimento del condannato" rivelatosi come noto fallace. Perché la collaborazione è una scelta processuale, il ravvedimento è uno stato interiore. Perché collaborare con la giustizia non sempre è sicuro indice di ravvedimento, potendo tale scelta dipendere anche da valutazioni utilitaristiche. Perché esiste silenzio e silenzio e quindi, non si può ritenere che la scelta di non collaborare con la giustizia sia sempre indice di mancato ravvedimento del reo, ben potendo dipendere da fattori personali per niente affatto sindacabili ma, all'opposto, sintomatici di un' effettiva resipiscenza del condannato ( il rischio per la propria incolumità e per quella dei propri familiari, il rifiuto di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, il ripudio di una collaborazione che rischi di apparire strumentale alla concessione di un beneficio).

Tirando le somme, è la scelta di fare della collaborazione con la giustizia la condicio sine qua non per l'accesso alle misure premiali ciò che non convince i Giudici europei i quali, non chiedono il superamento del regime ostativo, bensì di trasformare da assoluta in relativa la presunzione legale di pericolosità sociale derivante dalla scelta di non collaborare.

A pochi giorni dalla decisione europea, anche la nostra Corte Costituzionale è stata chiamata a misurarsi con la legittimità del c.d. ergastolo ostativo. L'occasione segna una tappa fondamentale nell'evoluzione dei diritti dell'uomo: verificare, la compatibilità con la nostra Costituzione di una pena che i giudici europei ritengono, così come è oggi disciplinata, contraria al senso di umanità. Il punto focale della discussione è la legittimità, rispetto agli artt. 3 e 27 Cost., della presunzione legale assoluta in forza della quale una limitata categoria di ergastolani sono esclusi dall'accesso ai permessi premio se, pur potendolo, non collaborano con la giustizia.

La corte, con una pronuncia apprezzabile e coraggiosa ( l'auspicio è che ne seguiranno delle altre) afferma l'unico criterio costituzionalmente vincolante in materia penitenziaria: l'esclusione di rigidi automatismi normativi. Ciò in adesione alla prospettiva della finalità rieducativa della pena e del principio di responsabilità penale personale, che rifiuta presunzioni assolute di pericolosità tipiche di un diritto penale per tipi di autore. È altrettanto chiaro che sarà poi compito del legislatore affrontare la revisione della disciplina dell'ergastolo ostativo, senza che questo comporti l'abolizione della pena dell'ergastolo o l'apertura delle porte del carcere per tutti gli ergastolani ( messaggio questo fuorviante, poiché i giudici di Strasburgo non hanno affermato ciò).

È in bilico la dignità del detenuto , perché se è vero che il "carcere è pena per castigare certi gesti che non andavano compiuti, è altrettanto vero che la persona non è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia". Questo, implica che la persona, deve essere trattata per quello che è realmente e dunque per i fatti realmente commessi, nella sua contestualità storica e sociale. In siffatta maniera, la regola rimarrebbe quella dell'esclusione dal beneficio penitenziario in assenza di una collaborazione ma, tale esclusione non sarebbe più automatica, bensì rimessa alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza, potendo essere superata qualora, in base ad una valutazione individualizzata, il magistrato di sorveglianza ritenga che la pericolosità sociale del detenuto sia da escludere in assenza di collaborazione.

Ci sono sicuramente spunti interessanti per formulare una nuova disciplina che assicuri il rispetto della dignità del detenuto, senza che questo implichi il mancato rispetto per le vittime dei reati ed il sacrificio delle esigenze di prevenzione della criminalità.

È sempre bene ricordare che la pena non può solo guardare al passato ( il fatto commesso) ma deve soprattutto guardare al futuro, sempre.