I PROFILI CRITICI DELLA NOZIONE "ALLARGATA" DI MALTRATTAMENTI IN IPOTESI DI VIOLENZA ASSISTITA. UN DIFETTO DI DETERMINATEZZA?

01.01.2020

Dott.ssa Giulia Rizzo

Nota a Cass. pen., sent. 2 maggio 2018, n. 18833


Con la sentenza in esame, la Cassazione torna a pronunciarsi su una problematica di grande rilevanza, riguardante la precisa individuazione delle condizioni in presenza delle quali può essere considerato integrato il reato di cui all'art. 572 c.p. in ipotesi di violenza assistita (1).

Premessa

Nel caso di specie, la Cassazione si è occupata di una vicenda rispetto alla quale la Corte di Appello di Firenze aveva confermato la sentenza di condanna inflitta in primo grado per il reato di maltrattamenti in famiglia in danno dei due figli minori.

Secondo l'accusa, l'imputata aveva sottomesso i figli minori, costringendoli a vivere in un clima di violenza, di paura e di costante tensione, e dunque di scarsa serenità. In particolare, i figli minori, secondo l'accusa, erano stati costretti ad assistere, in qualità di meri spettatori passivi, alle liti furiose tra i genitori coimputati, senza però essere mai oggetto diretto di aggressioni e violenza, nemmeno di tipo psicologico. Si tratta del c.d. fenomeno della violenza assistita, come dimostrato anche dal fatto che le vittime non avevano manifestato alcun segno di disagio familiare.

La Corte di appello di Firenze, in parziale riforma dell'appellata sentenza del Tribunale di Pistoia, ha rideterminato la pena inflitta all'imputato per il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in concorso con il convivente e in danno dei due figli minori.

Nel ricorso per Cassazione il ricorrente ha richiesto l'annullamento della sentenza per violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia di cui all'art. 572 c.p. Ad avviso del ricorrente, infatti, i minori erano stati meri spettatori passivi dei maltrattamenti, senza subire alcun danno e senza manifestare alcun disagio familiare, come riconosciuto anche dal parere del consulente tecnico del pubblico ministero.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte, dal canto suo, ha accolto le argomentazioni della difesa secondo la quale non sarebbe possibile considerare integrato il reato di cui all'art. 572 c.p. In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto fondamentale a tal fine le circostanze accertate in linea di fatto che, pur avendo assistito alle liti dei genitori, i due figli non avevano in realtà manifestato alcun segno di disagio familiare e che pertanto il fatto storico difettasse di offensività in concreto.

Da qui principio di diritto: «il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, scaturente da una condotta riportabile alla c.d. violenza assistita, proprio perché fondato su di una relazione non diretta, ma indiretta fra il comportamento dell'agente e la vittima - essendo l'azione rivolta a colpire non il minore, ma altri ovvero, come nella specie, connotandosi per la reciprocità delle offese fra i genitori, postula una prova rigorosa che l'agire - in ipotesi - illecito, per un verso, sia connotato dalla c.d. abitualità; per altro verso, sia idoneo ad offendere il bene giuridico protetto dall'incriminazione, id est abbia cagionato - secondo un rapporto di causa-effetto - uno stato di sofferenza di natura psìco-fisica nei minori spettatori passivi» (2).

Ad avviso dei giudici della Cassazione, il reato di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche laddove i comportamenti vessatori non siano indirizzati direttamente a danno dei figli minori, configurandosi dunque una violenza assistita, e ciò in quanto detta ipotesi costituirebbe un fatto comunque capace di incidere negativamente sulla crescita morale e sociale del minore e con ciò di ledere il bene giuridico protetto dalla norma, cioè la famiglia, intesa nella sua funzione protettiva ed educativa.

Rimane tuttavia, sempre secondo la Corte, la necessità di un'attenta valutazione circa il reale effetto offensivo della condotta nei confronti della psiche del minore e comunque di un accertamento circa l'abitualità del comportamento (3).

Il commento

La decisione della Cassazione lascia più di qualche dubbio, per cui è opportuna qualche riflessione.

Va premesso che la collocazione del reato di cui all'art. 572 c.p. all'interno dei delitti contro la famiglia ha rappresentato una novità del Codice Rocco poiché il precedente Codice Zanardelli lo aveva collocato tra i reati contro la persona.

Il delitto in esame evidenzia dunque anzitutto perplessità avanzabili circa la sedes materiae prescelta dal legislatore, poiché figurano tra le persone offese soggetti non legati da alcun vincolo di familiarità. Alla eterogeneità dei soggetti va altresì aggiunta, nello specifico, l'ampiezza incriminatoria delle condotte di maltrattamenti che, come si vedrà, può estrinsecarsi in comportamenti offensivi dell'onore, del decoro, dell'incolumità fisica o della personalità morale della vittima.

Tutto ciò ha generato numerose incertezze sulla natura del bene giuridico protetto dalla norma, soprattutto alla luce dell'indeterminatezza dello stesso concetto di famiglia. Così, se da una parte si è sostenuto che l'inclusione dei maltrattamenti nel novero dei delitti contro la famiglia obbligherebbe l'interprete a individuare nella famiglia l'oggettività giuridica prevalente, lasciando in secondo piano l'incolumità fisica e psichica delle persone offese (4); altra dottrina, invece, ha sostenuto che «oggetto specifico dei reati familiari non sono i beni o interessi della famiglia, di cui questa sarebbe titolare quale soggetto passivo, ma i singoli rapporti familiari, o meglio di familiarità, ossia quei rapporti psicologici di varia natura intercorrenti anche tra persone, fra le quali non vi siano i rapporti di coniugio, di parentela o di affinità» (5).

Tuttavia, alla luce anche della pronuncia in esame, sembra più conforme alla ratio della norma identificare il bene giuridico nell'interesse del più debole, di colui che si trova esposto alla supremazia o all'arbitrio di un familiare o di un soggetto preposto alla sua cura o educazione contro le degenerazioni della stessa autorità, latu sensu intesa, e, più precisamente, l'interesse del soggetto al rispetto, più ancora che della propria incolumità fisica e psichica, della propria personalità nello svolgimento del rapporto (6). Questa interpretazione, infatti, consente di dare maggiore rilevanza alla nozione di vittima vulnerabile del rapporto.

La Cassazione sembra confermare questo orientamento in una pronuncia di qualche mese successiva a quella oggetto di analisi, sostenendo che «integrano il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore anche le condotte persecutorie poste in essere da un genitore nei confronti dell'altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di condotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest'ultimo» (7).

La Cassazione, dunque, riconosce in via ormai consolidata che il reato di maltrattamenti in famiglia può essere realizzato anche nel caso della c.d. violenza assistita: si rende conto, tuttavia, che tale orientamento rischia di estendere in maniera eccessiva l'ambito di applicazione della fattispecie di cui all'art. 572 c.p., ragion per cui aggiunge che «il delitto di maltrattamenti scaturente da una condotta riportabile alla c.d. violenza assistita, proprio perché fondato su di una relazione non diretta, ma indiretta fra il comportamento dell'agente e la vittima - essendo l'azione rivolta a colpire non il minore, ma altri ovvero, come nella specie, connotandosi per la reciprocità delle offese fra i genitori, postula una prova rigorosa che l'agire - in ipotesi - illecito, per un verso, sia connotato dalla c.d. abitualità; per altro verso, sia idoneo ad offendere il bene giuridico protetto dall'incriminazione, id est abbia cagionato - secondo un rapporto di causa-effetto - uno stato di sofferenza di natura psìco - fisica nei minori spettatori passivi» (8).

Proprio l'assenza di questa prova rigorosa ha determinato, nel caso di specie, l'annullamento della sentenza della Corte di Appello, colpevole, secondo i giudici della Cassazione, di aver aderito in maniera acritica alle conclusioni del consulente tecnico senza verificare e dimostrare che effettivamente la scarsa serenità familiare (rectius le liti furiose tra i genitori) fosse stata in grado di avere un effetto maltrattante nei confronti dei minori, minandone in maniera significativa la crescita.

La Suprema Corte, pertanto, ha ritenuto che i maltrattamenti possono essere integrati anche dalla mera esposizione del minore a liti tra i genitori.

Per quanto concerne la condotta incriminata, come è noto il legislatore si limita a riproporne il nomen iuris, punendo chiunque maltratti una di quelle persone specificamente elencate nella fattispecie. Una prima questione, risolta positivamente dalla quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza, concerne l'ascrizione del delitto alla categoria dei reati abituali, richiedendosi perché sia integrata la fattispecie la reiterazione nel tempo di una serie di comportamenti.

La giurisprudenza è intervenuta più volte sul tema, chiarendo le caratteristiche fondamentali del reato: anzitutto, affinché esso si configuri, «non occorre che lo stato di sofferenza e mortificazione inflitto alla persona offesa in regime di continuità temporale (abitualità) si colleghi in forma simmetrica a specifici contegni prepotenti e vessatori attuati nei suoi confronti dal soggetto agente, potendo quello stato derivare anche dal diffuso clima di afflizione, sofferenza e paura indotto nella vittima dall'imputato» (9).

In secondo luogo, circa la sua collocazione sistematica, esso costituisce «un reato contro la famiglia, in particolare contro l'assistenza familiare, e il suo oggetto giuridico è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell'interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. E' un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un "ruolo" nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di "autorità" o peculiare "affidamento" nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall'art. 572 c.p. (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte)» (10).

Per quanto concerne la condotta tipica, quindi, essa è stata descritta dal legislatore in termini finalistici e ricomprende al proprio interno una estrema varietà di modi di agire, unificati dalla loro comune direzione verso il maltrattare, ossia il provocare nella vittima vulnerabile una continua situazione di sofferenza morale o fisica, con effetti di prostrazione e avvilimento.

In particolare, la condotta può realizzarsi o attraverso atti che costituiscono già di per sé reato, oppure mediante comportamenti non qualificabili ex se come reati, ma che, in una logica di considerazioni unitaria, nel loro ripetersi nel tempo, determinano appunto quell'effetto di maltrattamento che la fattispecie in esame intende reprimere.

Il termine maltrattare, inoltre, consente di includere nella condotta punibile anche i comportamenti di tipo meramente omissivo. Pare evidente, tuttavia, che, così interpretato, l'art. 572 c.p. rischia di porsi in contrasto con i principi di legalità, tassatività e determinatezza penale.

Come è noto, il principio di determinatezza impone al legislatore di descrivere la fattispecie normativa in modo tale da non lasciare margini di discrezionalità al giudice, il quale è solo chiamato a verificare la riconduzione del fatto storico alla fattispecie astratta. Il principio di tassatività, invece, postula certamente quello di determinatezza, senza il quale si verifica una sorta di analogia anticipata. Il principio di tassatività, in tale prospettiva, rappresenta anch'esso un fondamentale principio di garanzia per il cittadino, ed il suo fondamento va proprio individuato sul piano garantista della certezza del diritto in funzione del favor rei.

La giurisprudenza continua ad interpretare il reato di maltrattamenti in termini molto ampi, comprendendovi percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni ed umiliazioni imposte alla vittima, nonché sofferenze morali, in grado di esporre la vittima ad un clima generale di timore derivante da atti di sopraffazione di cui essa sia stata anche mera spettatrice.

Per quanto riguarda, invece, la dottrina (11), si è messo in luce che la sensibilità della politica criminale rispetto al ruolo del soggetto passivo è maturata da tempo in maniera significativa, segnando a tutti gli effetti un ritorno ad un'ideologia di "diritto penale della vittima".

In senso critico, tuttavia, si è osservato che i volti delle vittime tendono così a moltiplicarsi, «in una linea di tendenziale confusione e sovrapposizione tra la pluralità di sfaccettature in cui si frammenta questo "ambiguo" personaggio penale» (12).

Il ruolo della vittima e soprattutto dei suoi diritti è stato paradossalmente valorizzato nel momento in cui la scienza penalistica ha spostato le sue attenzioni sull'autore del reato, sia nella prospettiva criminologica della ricerca delle cause del reato, sia nella prospettiva special-preventiva e del trattamento rieducativo, che ha posto in crisi il principio retributivo e general-preventivo della inderogabilità della pena, sia soprattutto nella prospettiva garantista dei diritti del reo, perché i principi cui deve ubbidire la giustizia nello Stato di diritto portano a ridurre il ruolo processuale della vittima (13).

Tuttavia, come è stato osservato, «la progressiva tecnicizzazione e professionalizzazione del processo, disumanizzando questo, ha spezzato ogni rapporto diretto tra reo e vittima anche sui punti più cruciali (rinuncia o remissione di querela, risarcimento del danno), pressoché affidati all'intermediazione, talora affaristica, dei legali. E in questo processo devittimizzante pure l'auspicata riparazione statuale alle vittime dei delitti violenti può segnare l'inizio della trasformazione del delitto in un rischio socialmente coperto» (14).

L'estensione della fattispecie di maltrattamenti in famiglia, fino a ricomprendere le ipotesi di violenza assistita, è espressione di un fenomeno molto diffuso di recente, ossia la costruzione dei reati a "misura della vittima".

La vittima costituisce un punto di riferimento estremamente rilevante per il legislatore nella costruzione della fattispecie criminosa. In questo contesto ha assunto grande importanza, negli ultimi anni, soprattutto la vittimologia, in quanto la ricerca criminologica ha dedicato grande attenzione allo studio dei processi di vittimizzazione di alcune categorie di soggetti quali i minori, le donne e gli anziani che, per ragioni fisiche, psicologiche, culturali o sociali, risultano particolarmente vulnerabili e possono risentire delle conseguenze del reato in modo maggiormente traumatico, sotto diversi profili.

La vittimologia si è prevalentemente interessata a peculiari categorie di vittime caratterizzate da due elementi specifici: la posizione particolarmente debole sul piano sociale e giudiziario, nonché la scarsa possibilità di denunciare il reato, di fare emergere il problema di segnalare le difficoltà e l'offesa alla quale sono state esposte.

La vittima è quindi divenuta fulcro della politica criminale. Sotto certi aspetti, si tratta di un fenomeno da considerare in senso positivo in quanto mostra l'attenzione del legislatore nei confronti di categorie di soggetti più esposte degli altri alla possibilità di essere vittime di un reato ed in quanto tali passibili di adeguata tutela.

Tuttavia, vi sono anche aspetti negativi, che meritano di essere analizzati. Attualmente si registra una centralità politica della vittima del reato, divenuta vero e proprio soggetto in grado di reclamare diritti e prerogative, ridotte o negate nei sistemi giuridici moderni.

Negli ultimi anni, infatti, ruolo ed esigenze di tutela della vittima sono tornate prepotentemente al centro del dibattito politico-criminale. Nel mondo occidentale la vittima sta vivendo una stagione di forte protagonismo, soprattutto sul piano politico, grazie anche all'opera di "ingegneria mediatica" svolta dai mezzi di comunicazione.

Altra dottrina (15) ha messo in luce che questa tendenza ad una vera e propria "ipertutela" della vittima è emersa in maniera fragorosa con l'affermarsi della nozione di vittima "vulnerabile". Sono state vittime vulnerabili «coloro che, come è noto, per le caratteristiche legate al soggetto (minore o infermo di mente) o al tipo di violenza hanno subito un trauma in conseguenza del reato e rischiano di essere indotte alla c.d. "vittimizzazione secondaria", ovvero al patimento di un nuovo trauma indotto dal processo e connesso alla riedizione del ricordo» (16).

I confini del reato di maltrattamenti sono, dunque, eccessivamente indefiniti, o meglio "liquidi", sebbene tale caratteristica sia controbilanciata dalla richiesta di un onere probatorio che, in caso di violenza assistita, è ancora più rigoroso, come testimoniato proprio dalla sentenza in commento.

In sostanza, non può prescindersi da un rigoroso accertamento della sofferenza e del maltrattamento subito dalla vittima "indiretta" della violenza. Eppure, sebbene tale sforzo interpretativo sia apprezzabile, lascia ancora una volta perplessi che sia possibile integrare l'elemento oggettivo della fattispecie mediante la mera esposizione della vittima a situazioni di scarsa serenità familiare.

Si verifica, infatti, in tal modo, una evidente distorsione dei principi di legalità, tassatività e determinatezza penale, perché appare francamente abbastanza illogico ed irragionevole procedere alla valutazione della sussistenza del maltrattamento a contrario, ossia partendo dal disagio del minore, come se questo potesse effettivamente rientrare nella nozione di maltrattamento medesimo ed essere espressione della piattaforma oggettiva del reato oggetto di analisi.

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1) Si tratta di Cass. pen., sent. 2 maggio 2018, n. 18833, in www. dejure.it. Per un commento alla sentenza si rinvia a A. Scarcella, È vittima di c.d. violenza assistita il minore che assiste ai litigi dei genitori?, in Quotidiano giuridico, 18 maggio 2018.

2) Cass. pen., sent. 2 maggio 2018, n. 18833, cit.

3) Ciò in quanto «costituisce approdo ormai consolidato della scienza psicologica che anche bambini molto piccoli, persino i feti ancora nel grembo materno, siano in grado di percepire quanto avvenga nell'ambiente in cui si sviluppano e, dunque, di comprendere e di assorbire gli avvenimenti violenti che ivi si svolgano, in particolare le violenze subite dalla madre, con ferite psicologiche indelebili ed inevitabili riverberi negativi per lo sviluppo della loro personalità»: così Cass. pen., sent. 18 ottobre 2017, n. 55883, in dejure.it. Si v., in precedenza, Cass. pen., sent. 8 ottobre 2013, n. 447000, in dejure.it.

4) Cfr. sul tema A.M. Colacci, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, Napoli, 1963, p. 32 ss.

5) G.D. Pisapia, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953, p. 521.

6) In questo senso si v. F. Coppi, Maltrattamenti in famiglia, Perugia, 1979, p. 233 s.

7) Cass. pen., sent. 29 marzo 2018, n. 32368, in www.dejure.it.

8) Cass. pen., sent. 2 maggio 2018, n. 18833, cit.

9) Cass. pen., sent. 20 giugno 2012, n. 24575, in www.dejure.it.

10) Cass. pen., sent. 20 giugno 2012, n. 24575, cit.

11) Cfr. D. Falcinelli, La "violenza assistita" nel linguaggio del diritto penale. Il delitto di maltrattamenti in famiglia aggravato dall'art. 61 n. 11 quinquies c.p., in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1, 2017, p. 174.

12) Ibidem.

13) Cfr. sul punto G. Scardaccione, Nuovi modelli di giustizia: giustizia riparativa e mediazione penale, in Dottrina e ricerche, 2009, p. 9 ss.

14) F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2019,p. 231.

15) Cfr. L. Pistorelli, Prime note sulla legge di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 93 del 2013, in materia tra l'altro di "violenza di genere" e di reati che coinvolgano minori. Relazione dell'Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, in Diritto penale contemporaneo, 18 ottobre 2013.

16) F. Di Muzio, La tutela processuale delle vittime di violenza, in Giurisprudenza penale, 2013.