IDENTIKIT DELLE ASSASSINE SERIALI

01.07.2023

Dott.ssa Federica Longo - FUNZIONARIO PA

Attualmente, il delitto seriale rappresenta una delle espressioni più inquietanti della criminologia nonché un fenomeno che desta sempre un forte interesse mediatico, incuriosendo sempre più l'opinione pubblica,

Non vi è dubbio che si sia dinanzi ad un fenomeno criminale di elevato allarme sociale, il quale, come tale, va sottoposto ad attento studio ed analisi.

Gli omicidi seriali sono molto diversi tra loro, non soltanto per ciò che riguarda il numero di soggetti che si macchiano di tali delitti, ma anche per il movente che li origina o per il tipo di vittima coinvolto, nonché a seconda che ad uccidere sia un uomo o una donna.

Dal punto di vista generale, la differenza principale tra gli uomini e le donne serial killer è la scelta della modalità per uccidere le proprie vittime: difatti, a differenza degli uomini, le assassine seriali non si accaniscono sui cadaveri con mutilazioni, smembramenti o aggressioni sessuali[1].

Tuttavia, alcune donne fanno eccezione e i loro omicidi possono raggiungere livelli di brutalità simili a quelli maschili, sebbene la violenza venga effettuata soprattutto sui cadaveri.

Si pensi al caso della spagnola Enriqueta Martì, soprannominata la "Vampiressa di Barcellona", una donna poco socievole con gli estranei. Era solita indossare abiti modesti ma, in alcuni casi e soprattutto di sera, i vicini la vedevano uscire di casa con vestiti sfarzosi[2].

L'abbigliamento era parte integrante della sua doppia vita: di giorno, era la classica donna di un quartiere popolare, di sera frequentava personaggi importanti dell'alta borghesia.

Martì venne arrestata nel marzo del 1912, dopo che una madre terrorizzata denunciò la scomparsa della figlia di cinque anni, avvenuta il 10 febbraio.

La polizia fece irruzione nel suo appartamento e trovò due bambine tenute prigioniere, completamente nude, con i capelli rasati a zero e incatenate in una stanzetta. Gli agenti trovarono un nascondiglio in una parete ed estrassero un sacco contenente una trentina di ossa umane appartenenti a maschietti e femminucce di sette o otto anni.

Le indagini appurarono che Enriqueta Martì era una specie di strega autodidatta che vendeva, a prezzi esorbitanti, filtri e pozioni realizzati con pezzi di corpi di bambini rapiti per le strade della città.

Le due bimbe sopravvissute raccontano che la loro carceriera le ha obbligate a mangiare carne umana, preparando i pasti con i residui dei cadaveri di altri bambini. La donna era coinvolta in un giro di prostituzione infantile e procacciava bimbi piccoli che offriva ad amici importanti per orge e sacrifici umani. A volte, uccideva solo per soddisfare il suo spiccato sadismo sessuale.

Il processo fu veloce e la Martì è condannata a morte ma, prima che la sentenza fu applicata, la donna venne trovata morta nella sua cella, probabilmente avvelenata dai personaggi importanti che avevano paura che lei rivelasse i loro nomi, e ciò ha reso impossibile far luce completa sul caso.

Rari sono i casi di strangolamento, percosse o uso di armi bianche, da parte delle donne assassine, ovvero quei metodi che implicano un contatto fisico con la vittima. Le donne, di solito, non torturano prima di uccidere e non si gratificano sessualmente assistendo alle sofferenze delle vittime, anche se un lento avvelenamento che causa una lunga agonia può essere considerato una sottile forma di tortura. Tra i veleni, il più usato è l'arsenico, con tutti i suoi derivati, ma non mancano sostanze più fantasiose.

L'inglese Mary Elizabeth Wilson e la tedesca Christa Lehmann usavano un composto di fosforo, l'austriaca Martha Marek utilizzava un metallo, il tallio. La ptomaina (sostanza tossica derivante dagli amminoacidi costituenti le proteine) era il veleno preferito dall'italiana Antoinette Scieri, in alternanza a un erbicida, il piralio. L'inglese Catherine Wilson prediligeva una pianta molto velenosa di nome Colchico.

Spesso, le assassine seriali riescono a portare avanti per anni la serie di omicidi e, dal punto di vista investigativo, sono più difficili da catturare rispetto agli uomini, perché riescono a mantenere invisibili per un tempo medio quasi doppio[3].

La scelta delle armi, l'accurata selezione delle vittime e una pianificazione metodica degli omicidi che tende, spesso, a simulare una morte naturale, sono tutti elementi che, combinati a una forte negazione culturale del fenomeno, permettono alle donne di uccidere più a lungo[4].

Le vittime hanno generalmente un grado di relazione con le assassine seriali: amanti, genitori, figli, parenti di ogni grado, conoscenti. Vengono uccisi solitamente con metodi sedentari, ovvero nella casa dell'assassina, in case di cura, ospedali e altri luoghi chiusi. Non si notano comportamenti predatori (come appostamenti e studio delle abitudini), tranne che in qualche raro caso, soprattutto quando uccide in coppia con un uomo: in queste situazioni, la donna avvicina la potenziale vittima e la attira nella trappola preparata dal suo compagno.

Le donne che uccidono in gruppo, di solito, ne fanno parte in qualità di membri passivi, sottomessi alla volontà di un leader maschile, ma esistono delle eccezioni. La ceca Anna Dvoracek, unitamente al marito Karl, organizza un gruppo composto da altri sei uomini che, fra il 1918 e il 1919, uccide e deruba almeno otto rifugiati polacchi nella città di Trebic: la coppia li attirava con un annuncio sui giornali in cui affittavano a prezzi modici una stanza della casa. Dopo gli omicidi, derubavano le vittime, facevano a pezzi i cadaveri e li bruciavano in un forno.

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[1] Lucarelli C., Picozzi M. (2003), Serial Killer. Storie di ossessione omicida, Mondadori, Milano.

[2] Newton M. (1993), Bad Girls Do It! An Encyclopedia of Female Murderers, Loompanics, Washington DC

[3] Newton M., op. cit.

[4] Mastronardi V.M., De Luca R. (2005), I serial killer, Newton Compton, Roma