IL RAPPORTO DI LAVORO NEL PUBBLICO IMPIEGO: L'ESERCIZIO DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO DELLO JUS VARIANDI.

01.03.2020

Dott.ssa Deborah Pascale

La Pubblica Amministrazione ha subito nel corso degli anni un processo di ammodernamento. Il settore del pubblico impiego è stato, infatti, interessato da una graduale evoluzione normativa culminata nella cosiddetta "privatizzazione". Con tale termine si intende la riconduzione del rapporto di pubblico impiego alle regole privatistiche del contratto e dell'autonomia privata individuale e collettiva. A ciò si aggiunge la devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario.

Nonostante tale processo di privatizzazione, occorre rilevare che non si sono eliminate le particolarità del datore di lavoro pubblico. Quest'ultimo, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, resta pur sempre condizionato al perseguimento del pubblico interesse oltre che di compatibilità finanziaria generale, aspetti che possono giustificare deroghe alle regole dettate dal Codice Civile.

I rapporti di lavoro pubblico sono, in linea generale, disciplinati dalle disposizioni del Codice Civile, dallo Statuto dei Lavoratori e dalla contrattazione sia individuale che collettiva, restando assoggettati alla disciplina pubblicistica una serie di altri aspetti: gli organi, gli uffici, i principi fondamentali dell'organizzazione, i procedimenti di selezione per l'accesso al lavoro, la determinazione delle dotazioni organiche.

La disciplina delle mansioni fa parte di quelle disposizioni che derogano all'applicazione della normativa civilistica.

In primo luogo, è necessario chiarire cosa si intende con il concetto di ius variandi. Si tratta del potere di modificazione unilaterale delle mansioni del prestatore di lavoro da parte del datore, nel generale rispetto della buona fede.

Nel rapporto di lavoro privato tale potere è disciplinato dall'art. 2103 c.c. secondo cui "il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.".

In materia di pubblico impiego contrattualizzato,invece, non si applica l'art. 2103 c.c., in quanto la materia trova compiuta disciplina nell'art. 52, d.lgs. n. 165/2001 (Norme Generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che sancisce il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni "per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all'articolo 35 comma 1, lettera a)".

Rispetto alla versione precedente dell'art. 52, con le modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2009 (c.d. decreto Brunetta), è venuto meno il riferimento alle mansioni "considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi". Il legislatore ha ridefinito i confini per un legittimo esercizio dello jus variandi datoriale. In precedenza condizione necessaria e sufficiente per ritenere equivalenti le mansioni era la previsione in tal senso nei contratti collettivi, oggi invece si individuano le mansioni equivalenti nell'ambito "dell'area di inquadramento".

Tuttavia, nonostante sia stato eliminato il riferimento ai contratti collettivi, quale parametro per operare un giudizio di equivalenza, il rinvio resta implicito, poiché le aree di inquadramento sono il sistema di classificazione del personale pubblico e sono definite dalla contrattazione collettiva.

Tale nozione di equivalenza in senso formale comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili e, di conseguenza, l'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere datoriale.

Fino a pochi anni fa, la Corte di Cassazione interpretava l'equivalenza professionale in senso restrittivo, come equivalenza in senso sostanziale, considerando il potere datoriale circoscritto alla specifica preparazione tecnico-professionale del lavoratore, e non considerando "equivalenti" quelle mansioni che, nel loro espletamento, non consentivano l'utilizzazione e il conseguente perfezionamento del corredo di nozioni, esperienze e capacità acquisite nella fase pregressa del rapporto di lavoro. In particolare, i principi giurisprudenziali che se ne ricavavano erano i seguenti:

- l'attribuzione di mansioni equivalenti imponeva che il lavoratore potesse svolgere le nuove mansioni assegnategli con le stesse capacità ed attitudini professionali in precedenza acquisite;

- l'equivalenza era intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine di quelle nuove ad essere aderenti alla specifica competenza tecnico-professionale del dipendente, salvaguardandone il livello professionale, e tali da consentire l'utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto di lavoro;

- le mansioni equivalenti dovevano essere idonee a consentire l'utilizzazione, il perfezionamento e l'accrescimento del patrimonio professionale già acquisito e il datore di lavoro aveva l'obbligo di tutelare la professionalità del dipendente, intesa come patrimonio di esperienze e di nozioni da questi acquisito nel corso del rapporto;

- il lavoratore poteva essere assegnato a mansioni diverse da quelle svolte, a condizione che vi fosse equivalenza per quanto concerne il contenuto di professionalità e che le nuove mansioni fossero aderenti alla specifica preparazione tecnico-professionale del dipendente.

Si trattava, come detto precedentemente, di un concetto di equivalenza professionale cosiddetta "sostanziale", ossia ancorata al bagaglio professionale del dipendente (da preservare e valorizzare), contrapposto al concetto di equivalenza professionale cosiddetto "formale", ossia riferito alla categoria professionale di appartenenza del lavoratore, espressamente introdotto nell'ordinamento pubblico dall'art. 56, d.lgs. 29/1993 (oggi art. 52, d.lgs. 165/2001, successivamente modificato dall'art. 62, d.lgs. 150/2009).

Le sentenze più recenti evidenziano un netto mutamento interpretativo della Corte di Cassazione, che abbandonando il principio dell'equivalenza professionale sostanziale e aderisce all'interpretazione formalistica ed oggettiva, prevista nel sistema pubblico nel dettato normativo del citato articolo 52, d.lgs. 165/2001.

La Corte di Cassazione (Sez. lav., 26.1.2017, n. 2011) ha espresso un nuovo orientamento, che fa riferimento alla lettera del citato art. 52, comma 1, d.lgs. 165/2001, ossia al concetto di equivalenza formale, ancorato ad una valutazione demandata alla contrattazione collettiva e non sindacabile dal giudice ordinario. In particolare, la Corte afferma:

- "condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A.", senza che rilevi la tutela del bagaglio professionale del lavoratore";

- "dunque, non è ravvisabile alcuna violazione dell'art. 52 del d.lgs. 165/2001 qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni";

- "restano, dunque, insindacabili tanto l'operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza delle parti sociali, quanto l'operazione di verifica dell'equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili alla medesima declaratoria";

- "tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro".

La Corte, inoltre, precisa che esula dall'ambito delle problematiche sull'equivalenza delle mansioni la fattispecie del sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa del dipendente, costituendo ipotesi di sottrazione integrale delle funzioni da svolgere, comunque vietata, in qualunque ambito, sia esso pubblico che privato.

La Suprema Corte richiama gli stessi principi sopra espressi nella motivazione di altre due importanti sentenze (27.1.2017, n. 21409 e 27.1.2017, n. 214310), consolidando la nuova interpretazione dell'equivalenza professionale.

La dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono concorsi nel ritenere che nel lavoro pubblico, l'indagine del Giudice è circoscritta solamente all'accertamento oggettivo della riconducibilità, sulla base della contrattazione collettiva, delle nuove e precedenti mansioni alla medesima area di inquadramento, senza alcun rilievo per la professionalità acquisita dal dipendente.

Mentre l'art. 2103 c.c. valorizza una nozione sostanziale di equivalenza (che può ritenersi sussistente solo se le nuove mansioni consentono la conservazione, lo sviluppo e l'arricchimento del bagaglio professionale del dipendente), l'art. 52, comma 1, d.lgs. 165/2001, ha recepito un concetto di equivalenza formale, sancendo il diritto del dipendente pubblico ad essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto o ad altre equivalenti, risultanti dal contratto o dalle progressioni verticali, indipendentemente dalla professionalità acquisita dal dipendente.

In definitiva, ai fini del giudizio di equivalenza nel pubblico impiego il confronto non deve essere condotto con le mansioni "ultime effettivamente svolte", come previsto dall'art. 2103 c.c., bensì con quelle equivalenti nell'area di inquadramento.

Nel sistema di disciplina delle mansioni nel pubblico impiego, la funzione della contrattazione collettiva rimane molto più incidente rispetto a quella svolta nel settore privato e si traduce in un limite ai poteri del Giudice del Lavoro, che non può sindacare né la corrispondenza delle nuove mansioni al tipo di professionalità, né le previsioni della contrattazione collettiva relative all'equivalenza formale delle mansioni stesse, con la conseguenza che "condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita" (Cassazione, Sez. lav., 23.10.2014, n. 22535; Cassazione, 11.5.2010 n. 11405; Cassazione 21.5.2009, n. 11835; Cassazione, 5.8.2010 n. 182839 ivi richiamate; Cassazione, Sezioni Unite, n. 8740/2008).

Nel pubblico impiego è imprescindibile operare un delicato bilanciamento tra esigenze contrapposte, quella di assicurare da un lato la flessibilità e la mobilità nella gestione delle risorse umane ai fini di migliorare l'efficienza dell'Amministrazione, nonché quella di rispettare le istanze di delegificazione e contrattualizzazione che restano comunque sottese alla logica di cui all'art. 52.

In conclusione, il potere direttivo del datore di lavoro pubblico si considera esercitato correttamente qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il Giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime. Restano, quindi, insindacabili tanto l'operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l'operazione di verifica dell'equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima area di inquadramento.