L'OBBLIGO DI SALVATAGGIO IN MARE NEL DIRITTO INTERNAZIONALE

01.07.2019

Erika De Marchis

''Navigammo su fragili vascelli

per affrontar del mondo la burrasca

ed avevamo gli occhi troppo belli:

che la pietà non vi rimanga in tasca.''

(Fabrizio De André, Recitativo)

Le cronache giornalistiche e televisive da anni, con cadenza giornaliera, riportano notizie riguardanti operazioni di soccorso e salvataggio in mare compiuto dalle nostre navi o (più raramente) da quelle di altri Nazioni, nei confronti di migranti.

Il nostro Paese è da sempre impiegato, come leader, su tale versante, soprattutto in operazioni in ambito internazionale (si ricorderanno Mare Nostrum, Triton, o Eunavfor Med Sophia, per fare degli esempi): ebbene, tralasciando le valutazioni sulla qualità della politica intrapresa dall'attuale governo nazionale al riguardo (o di quella dell'Unione Europea nel suo insieme), e sull'opportunità o meno di adibire alla attività di soccorso le nostre navi militari, il dato che può risultare interessante è l'analisi del c.d. obbligo di salvataggio in mare della vita umana che, derivante da una consuetudine marittima risalente nel tempo, è ad oggi posto a fondamento di numerose convenzioni internazionali e, in virtù di quest'ultime, l'obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso obbligo degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell'immigrazione irregolare. 

La ricostruzione dei fatti e la qualificazione delle responsabilità dei diversi attori coinvolti deve tenere conto dei rilevanti profili di diritto di diritto internazionale che, in base all'art. 117 della Costituzione italiana, assumono rilievo nell'ordinamento giuridico interno. A tal fine, assumono importanza la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974), la Convenzione sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, (SAR- International Convention on Maritime Search and Rescue, Amburgo, 1979) e la Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS - United Nations Convention on the Law of the Sea, Montego Bay, 1982).

Paragrafo 1 art.98 UNCLOS:

1. ''Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l'equipaggio o i passeggeri:

a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;

b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;

c) presti soccorso, in caso di abbordo, all'altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all'altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo. ''

Il suddetto principio, alla luce del dettato normativo, è posto tanto in capo ai singoli comandanti di navi, sia in capo agli stessi Stati. Sotto il primo profilo, infatti, a mente dell'art. 98.1 della UNCLOS e del Cap. V, Reg. 33 (1) della SOLAS, il comandante di una nave ha l'obbligo di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere con tutta rapidità all'assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia avuto informazione. Naturalmente, anche per l'obbligo di soccorso esistono dei limiti: essi sono previsti dall'articolo di cui sopra ove l'intervento ponga in pericolo la nave, l'equipaggio o i passeggeri, o se, considerate le circostanze del caso, non appare ragionevole aspettarsi una simile iniziativa.

Paragrafo 2 art. 98 UNCLOS:

''Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.''

Sotto il secondo profilo, invece, l'articolo prevede l'obbligo, per gli Stati Parte, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso, relativo alla sicurezza in mare e, ove necessario, di sviluppare, in tale ambito, una cooperazione attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi, ponendo le basi per l'esecuzione di accordi multilaterali (quali, ad es., i Protocolli di Palermo del 2000) e bilaterali (quali, ad es., l'accordo tra Italia e Libia del 2007 ed il successivo Trattato di amicizia del 2008).

La Convenzione SAR, dal canto suo, impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare indipendentemente dalla nazionalità dei membri dell'equipaggio ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro: in tale ottica, proprio per far fronte ai problemi legati all'ottenimento del consenso di uno Stato allo sbarco delle persone tratte in salvo, gli Stati membri dell'IMO (International Maritime Organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. A tal fine, le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.

Per l'Italia, inoltre, valgono gli obblighi derivanti dal Regolamento UE n.656/2014 e, a livello nazionale, dal Codice della navigazione, dal Piano Nazionale per la Ricerca ed il Salvataggio in mare2 (DPR 662/1994, attuativo della Convenzione SAR) e dal Decreto Interministeriale 14/07/2003, che ripartisce le competenze alle autorità preposte ai controlli in mare.

Quanto, infine, alle sanzioni previste, in caso di omissione di assistenza a navi o persone in pericolo, con particolare riguardo all'ordinamento giuridico italiano, occorre ricordare quanto previsto dall'art. 1158 del Codice della Navigazione, prima richiamato, secondo cui il comandante di una nave, nazionale o straniera, "che ometta di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio" nei casi in cui ne abbia l'obbligo (alla luce di quanto previsto dallo stesso Codice), debba essere punito con la reclusione fino a due anni (la pena sarà invece della reclusione da uno a sei anni, se dal fatto sia derivata una lesione personale; da tre ad otto se ne sia derivata la morte).

In virtù degli obblighi discendenti dal diritto internazionale, il rifiuto dello Stato costiero di accogliere in porto una nave potrebbe configurare una violazione del dovere di salvaguardare la vita umana in mare - previsto dalle convenzioni summenzionate - del dovere di tutelare il diritto alla vita - previsto dai trattati in materia di diritti umani, tra cui la Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - e potrebbe perfino risolversi in una forma di respingimento di massa, anch'esso vietato dai trattati sui diritti umani.

Infine, la chiusura dei porti - o la minaccia di chiuderli - non può essere usata come contromisura, per rispondere ad un'eventuale violazione dei propri obblighi da parte di un altro Stato (Stato di bandiera della nave, altro Stato costiero, altro Stato in generale). Il diritto internazionale è chiaro sul punto: le contromisure non possono mai essere usate se violano i diritti umani fondamentali.

Tuttavia, è opportuno sottolineare che il problema principale della normativa internazionale relativa all'assistenza e al salvataggio in mare deriva dall'assenza di un obbligo internazionale a carico di qualunque stato di consentire lo sbarco delle persone così assistite sul proprio territorio. Questo perché il diritto internazionale consuetudinario non impone allo Stato Costiero di garantire l'accesso delle navi straniere ai suoi porti e lascia, in linea di principio, ogni stato libero di regolare come crede l'ammissione degli stranieri nel proprio territorio. Anche la stessa Convenzione Sar, nonostante l'emendamento del 2004, assegni a ciascuno stato parte la responsabilità primaria di coordinare le operazioni di ricerca e di salvataggio entro una determinata ''zona S.A.R.'', in modo tale che le persone assistite siano sbarcate e portate in un porto sicuro, non obbliga chiaramente uno stato specifico a consentirne lo sbarco.

Questo non vuol dire che gli Stati non abbiano strumenti per far rilevare le violazioni altrui. In particolare, nel caso di violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, si configura a carico dello stato violatore una responsabilità per illecito internazionale e la Convenzione stessa prevede la possibilità di sottoporre la questione ad un giudice internazionale (Corte Internazionale di Giustizia) che deciderà con effetto vincolante per le parti.

L'intensificarsi del traffico illecito di migranti al largo delle coste italiane ha anche provocato alcune interessanti decisioni della giurisprudenza italiana, specie in sede di esercizio della giurisdizione penale. La Corte di Cassazione ha, in particolare, affermato che sussiste la giurisdizione italiana nei confronti dei trafficanti nel caso in cui i migranti, originariamente trasportati a bordo di una nave madre proveniente da paesi dell'aerea nord africana, vengono successivamente trasbordati, in acque extraterritoriali, su piccole imbarcazioni prive di nazionalità e a rischio di sicurezza, proprio al fine di provocare l'intervento delle autorità costiere a titolo di salvataggio e assicurare così lo sbarco dei migranti nel territorio italiano.