RECENTE GIURISPRUDENZA SULLE VIOLAZIONI DELLA DISCIPLINA DEL REDDITO DI CITTADINANZA

01.03.2022

Dott.ssa Adriana Fabrizio

Il reddito di cittadinanza è stato istituito con il d.l. 4/2019, convertito con modificazioni nella l. 26/2019. Il provvedimento, elogiato da alcuni ma più spesso criticato dai più, ha sicuramente contribuito a tutelare le fasce più deboli della società. Il fine dichiarato della legge, infatti, è quello di garantire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione culturale e di contrastare l'emarginazione, la povertà e la disuguaglianza sociale, (art. 1). 

Dopo l'enumerazione dei requisiti richiesti per poter accedere al beneficio, l'art. 7 prevede delle sanzioni per coloro che violassero la disciplina: in particolare il comma 1 prevede un reato a dolo specifico, che riguarda la fase di richiesta del beneficio, che chiameremo fase genetica; tale reato consiste nel rendere o usare dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omettere delle informazioni dovute. Il secondo comma, invece, prevede un reato a dolo generico, che si verifica nella fase di fruizione del reddito di cittadinanza, consistente nell' omissione della comunicazione di variazione reddituale o di informazioni necessarie per la revoca o la riduzione del beneficio. Entrambi i reati sono di condotta e di pericolo: essi tutelano l'amministrazione laddove si rompa quel "patto di lealtà" che si crea tra il cittadino e la medesima amministrazione, nel caso di violazione. I principi su cui si fonda questa protezione sono il principio antielusivo, che trova fondamento nell'art. 53 Cost. e il principio di ragionevolezza, codificato nell'art. 3 Cost. 

La Corte di Cassazione, esercitando la propria funzione nomofilattica, a seguito di numerosi casi di violazione dell'art. 7, ha enunciato un principio di diritto: "il sequestro preventivo della carta del reddito di cittadinanza, nel caso di false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, da parte del richiedente, può essere disposto anche indipendentemente dall'accertamento dell'effettiva sussistenza delle condizioni per l'ammissione al beneficio" (C. Cass. 5289/2019). 

Tale principio afferma, in altri termini, che di fronte ad una violazione della norma, l'autorità giudiziaria può disporre, al fine del recupero delle somme indebitamente percepite, il sequestro preventivo della carta tramite cui l'importo è erogato. Ma la Suprema Corte dice anche qualcosa di più, e cioè che non spetta al cittadino decidere cosa comunicare all'amministrazione: ogni informazione circa la situazione reddituale, familiare o lavorativa è dovuta, non potendo ammettere che sia l'amministrazione a doversi fare carico dell'accertamento dell'esistenza dei requisiti. 

Questa sentenza è stata un faro per tutti i casi successivi su cui la Cassazione è stata chiamata ad esprimersi. 

Nella sentenza 34121/2021 la S. C. ha applicato questo principio per dichiarare infondato il ricorso di un soggetto che ha subito il sequestro preventivo a causa dell'omessa dichiarazione da parte sua, di una sentenza definitiva di condanna per il reato previsto dall'art. 416 - bis 1 c.p. La difesa ha sostenuto che l'omissione sia dipesa da un errore scusabile ed inevitabile, ai sensi dell'art. 5 c.p., poiché la modulistica dell'INPS non presentava questo tipo di provvedimenti tra quelli da dichiarare, e lamentava inoltre un difetto di motivazione da parte del Tribunale del Riesame; la Cassazione non solo ha ritenuto legittimo il provvedimento, alla luce del principio di diritto ricordato, affermando che l'elenco di provvedimenti da dichiarare nella modulistica INPS è meramente esemplificativo, ma ha anche respinto l'impugnazione sul difetto di logicità della motivazione del Tribunale del Riesame poiché non si può impugnare con un ricorso per Cassazione tale provvedimento per difetto di logicità, concernendo questo un sequestro preventivo. 

Un altro caso simile è quello della sent. 44366/2021 per violazione dell'art. 7, co. 1 d.l. 4/2019. In questo caso il padre della richiedente era detenuto, configurandosi la violazione dell'art. 3, co. 13 delle medesima legge. La difesa ha presentato un ricorso basato su due motivi: il primo sulla mancanza del fumus commissi delicti; l'omessa informazione, secondo questa tesi, non intaccava comunque la possibilità di ottenere il reddito di cittadinanza; essa pertanto non sarebbe strumentale all'ottenimento del beneficio. La mancata comunicazione inoltre, non sarebbe nemmeno sussumibile nell'art. 7, co. 2 in quanto non comprende i limiti temporali previsti dall'art. 3, co. 13. Con il secondo motivo di ricorso si è invece sostenuto che le somme non potessero essere confiscate poiché erano destinate a terzi, secondo il disposto dell'art. 240 c.p., poiché in tal caso il percettore dovrebbe indebitamente rimborsare il doppio del dovuto. la Suprema Corte ha respinto entrambi i motivi, ritenendoli infondati: innanzitutto, richiamando il principio di diritto della sent. 5289/2019, la Corte ha affermato che la ricorrente, interpretando in maniera letterale la norma, riesce a sostenere effettivamente la propria difesa, tuttavia, operando una lettura più approfondita del disposto normativo, la stessa Corte sostiene che quando il legislatore usa l'avverbio "indebitamente", afferma che vi sia una volontà diretta a conseguire il beneficio contra jus, e cioè in assenza non solo degli elementi formali ma anche e soprattutto di quelli sostanziali. Tali elementi sono fondamentali se, tramite di essi, l'agente riesca ad ottenere il beneficio. Con la dichiarazione di infondatezza del secondo motivo, la S.C., applica il combinato disposto degli artt. 1173, 2033 e 2037 c.c, sulla ripetizione di indebito, alle carte di debito ed afferma che il sequestro e la successiva confisca non toccherebbero i terzi, giacché essi sono dei meri creditori, non titolari di una posizione soggettiva immediatamente riferibile ai beni oggetto del sequestro. 

La Cassazione ha affermato che anche la mancata dichiarazione della custodia cautelare in carcere di uno dei familiari è motivo di sequestro preventivo, e lo ha fatto nella recentissima sentenza 1351/2022. L'infondatezza del ricorso è stata argomentata secondo lo stesso iter logico usato nella sent. 5289/2019: l'omessa comunicazione di tale circostanza ha violato non solo gli artt. 3, co.13 e 7, ma anche l'art. 2 d.l. 4/2019, in quanto è un evento che determina una variazione della composizione del nucleo familiare, che è uno dei requisiti richiesti per ottenere il beneficio. Il ricorrente inoltre, ha anche lamentato l'illegittimità della confisca di somme a lui appartenenti e di provenienza lecita; ancora una volta la Cassazione si è rifatta, ancora una volta, alla sua stessa giurisprudenza, richiamando la sentenza 42415/2021 secondo cui le somme di denaro rinvenute, qualsiasi sia la loro provenienza, e che rappresentano l'accrescimento patrimoniale conseguente al reato, possono essere oggetto di confisca diretta, a cui non osta l'allegazione della prova dell'origine lecita del denaro. 

Una sentenza molto simile a questa è la 34610/2021, in cui la ricorrente ha anche violato la disciplina transitoria, prevista per il periodo di conversione del d.l. 4/2019 ed entrata in vigore della legge 26/2019. Nella fattispecie la richiedente non aveva indicato la condanna definitiva riportata dal suo ex marito, adducendo la sua mancata conoscenza oltre alla vigenza della disciplina transitoria, che prevedeva un periodo di sei mesi durante il quale i percettori di reddito di cittadinanza avrebbero potuto continuare a godere del beneficio anche senza che ci fosse stata l'integrazione dei requisiti inseriti in sede di conversione in legge (art. 13, co. 1 - bis, d.l. 4/2019). Tuttavia alla data in cui l'ex marito della ricorrente aveva riportato la condanna definitiva, la legge era già entrata in vigore. 

La sent. 33431/2021 riporta sostanzialmente le stesse motivazioni per un caso simile: la fattispecie riguarda un'omessa comunicazione della condanna definitiva del coniuge convivente della beneficiaria, per uno dei b7806delitti richiamati dagli artt. 2, co. 1 lett. c) - bis, e 7, co. 3 d. l. 4/2019, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 26/2019. La sent. 30302/2020 ha riguardato un caso di di variazione della composizione della famiglia: come precedentemente esposto, l'art. 2, co. 5 della normativa in esame, definisce il concetto di familiari e di nucleo familiare. Nel caso oggetto della pronuncia, il beneficiario non aveva comunicato la mutazione della composizione familiare, causata dalla cessazione della convivenza con la sua compagna, con la quale tuttavia ha continuato a beneficiare del reddito di cittadinanza.

Un caso particolarmente grave, arrivato alla Corte di Cassazione, è quello della sent. 2402/2021, riguardante una truffa perpetrata ai danni dell'amministrazione da parte di un beneficiario di RdC, che ha posto in essere artifizi e raggiri atti ad occultare la reale consistenza patrimoniale onde ottenere il beneficio. Tale condotta elusiva, secondo la S.C., integra senza alcun dubbio il reato previsto dall'art. 640 - bis c.p., nonostante l'agente avrebbe comunque potuto usufruire del reddito di cittadinanza anche se non avesse messo in atto questo comportamento fraudolento. 

Con la sent. 33820/2021 la Corte è stata investita di un caso inerente la violazione degli artt. 3 e 7 del d.l. 4/2019, in particolare di un soggetto che, nonostante avesse dichiarato il suo stato di disoccupazione, lavorava presso un distributore di benzina. Il ricorrente avrebbe giustificato tale condotta asserendo che la sua presenza fosse meramente occasionale e dovuta al rapporto familiare che lo lega al titolare dell'esercizio (figlio della compagna), sostenendo che il provvedimento reso dal Tribunale del Riesame difettasse di motivazione ai sensi dell'art. 325 c.p.p.; tuttavia la S.C. ha sostenuto che, in base all'attività di indagine svolta, si è giunti a provare che l'agente fosse regolarmente presente presso la stazione di rifornimento e svolgesse attività lavorativa, dimostrando così che il provvedimento di sequestro della carta del RdC sicuramente non difettava di motivazione. 

Per concludere è interessante esaminare due sentenze che hanno avuto ad oggetto l'abnormità del provvedimento. È necessario premettere che tale istituto è di creazione giurisprudenziale e cerca di coprire tutti quei difetti dei provvedimenti emessi dall'autorità giudiziaria che non siano altrimenti disciplinati. Il primo caso è quello della sent. 44365/2021: il Tribunale del Riesame aveva emesso un provvedimento di sequestro a seguito di omissioni di informazioni dovute circa la vincita di una somma di denaro tramite delle scommesse online. Tuttavia la stessa autorità aveva rimesso al Pubblico Ministero il compito di verificare l'attuale sussistenza dei requisiti per il godimento del beneficio, ed è per questo che il p.m. ha impugnato il provvedimento, poiché non è sua competenza la verifica di tali requisiti, bensì dell'autorità amministrativa; inoltre anche il ricorrente ha impugnato il provvedimento sostenendo che il Tribunale non avesse considerato quel guadano al netto della somma giocata. La S.C. ha ritenuto fondato il ricorso, accogliendo innanzitutto la tesi del Pubblico Ministero e riconoscendo il difetto di competenza dello stesso per i controlli richiesti; ha inoltre riconosciuto come fondata la tesi del beneficiario, sostenendo altresì che non solo si sarebbe dovuto tenere conto della differenza tra somma investita e somma guadagnata (per la verità assai scarsa) , ma soprattutto che tale attività non poteva essere considerata professionale, e dunque produttiva di redditi. Il secondo caso invece ha riguardato un provvedimento emanato dal giudice per le indagini preliminari che - ai sensi dell'art. 7 - ter, d.l. 4/2019 - ha disposto la sospensione dell'erogazione del RdC nei confronti di un soggetto che aveva subito una misura cautelare personale. Il provvedimento è stato impugnato per abnormità ma la Cassazione ha ritenuto tale decisione non avulsa dal sistema processuale, poiché non determina la stasi del processo. (sent. 34055/2021).