ANALISI ERMENEUTICA DELL’ART. 391 –bis c.p.

01.10.2019

Dott.ssa Carmen Cutuli

L'art. 391-bis cod. pen. è stato collocato dal Legislatore del 2009 tra i «delitti contro l'autorità delle decisioni giudiziarie» (Libro II Titolo III Capo II del codice penale) ma secondo autorevole dottrina già la collocazione è di per sé erronea atteso che il provvedimento eluso è il decreto del Ministro della giustizia ossia un atto amministrativo che, come tale, è estraneo alla categoria delle decisioni giudiziarie (1). Secondo alcuni, quindi, sarebbe stato più appropriato e coerente collocare la fattispecie di agevolazione ai detenuti all'interno del titolo secondo del codice penale, tra i delitti contro la pubblica amministrazione». Secondo, altri, invece, sarebbe stato più appropriato e coerente inserire la disposizione tra i delitti contro l'ordine pubblico (2).

Relativamente ai soggetti attivi, il testo della norma è chiaro oltre ogni ragionevole dubbio: l'autore della condotta tipica è l'intermediario, colui il quale riceve il "messaggio" e lo comunica all'esterno o ad altri detenuti. Questo è l'unico soggetto che deve essere "necessariamente" presente anche se, perché il reato si consumi, è indispensabile che vi siano altri due partecipi: uno è il detenuto, colui che fornisce il messaggio da comunicare, l'altro è il destinatario, colui che riceve la comunicazione dall'intermediario. Non vanno tenuti in considerazione, quindi, i familiari e i difensori, le cui occasioni di "contatto" con il detenuto, utili per ricevere un messaggio, sono specificamente indicate dall'art. 41-bis ord. penit. e dal decreto applicativo, nonché gli agenti della polizia penitenziaria, gli operatori sociali, gli educatori, il personale sanitario, i sacerdoti, atteso che nemmeno questi "contatti" possono essere sottoposti ad alcun tipo di controllo in quanto non sono suscettibili di disciplina e non subiscono alcuna limitazione potendo avvenire, tra l'altro, in ogni momento.

Si è quindi in presenza di una fattispecie penale giuridicamente monosoggettiva anche se dal punto di vista naturalistico sia richiesta la presenza di tre persone ovvero di due qualora l'agente e l'interlocutore del detenuto coincidano (3), l'elemento materiale del reato consiste nella condotta di chi consente a un detenuto sottoposto al "carcere duro" di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni imposte.

Il richiamo alle «restrizioni di cui all'art. 41-bis» è da intendere con riferimento al secondo comma dell'art. 391-bis cod. pen. e, con il termine «altri» si intendono genericamente «altri soggetti», a prescindere, quindi, dalla circostanza che gli stessi siano detenuti o meno. Segue che trattasi di reato a forma libera (4) e che, pertanto, tra le condotte punibili deve annoverarsi sia "l'agevolazione" dello scambio diretto sia l'azione dell'intermediario che si fa portatore del messaggio (5). Il messaggio, poi, può anche non avere un contenuto intrinsecamente illecito e può provenire dal detenuto o essere a lui diretto, ferma restando la necessaria elusione delle prescrizioni imposte, può essere verbale, comunicato a voce ovvero con scritti, disegni, strumenti informatici o semplici gesti La scarsa precisione della condotta, della forma del messaggio e del suo contenuto, potrebbe essere frutto di una scelta di politica criminale; nel senso che non si sono volute, appositamente, specificare le modalità di realizzazione del fatto proprio per consentire all'interprete una più elastica ed ampia applicazione della fattispecie. Anche il riferimento alle "prescrizioni imposte" potrebbe essere volutamente generico posto che, una interpretazione letterale, porterebbe a concludere che le uniche regole che possono essere eluse riguardano il trattamento del detenuto il che minimizzerebbe la fattispecie di reato il quale, quindi, si andrebbe a realizzare solo laddove, semplicemente, si permettesse al detenuto di effettuare più colloqui di quelli previsti, più incontri, più telefonate o gli si permettesse di trascorrere più ore d'aria con altri reclusi. Tuttavia, a ben vedere, queste più che elusioni sarebbero vere e proprie violazioni delle prescrizioni dell'art. 41 -bis o.p. Con il termine elusione, invece, si fa riferimento a quei comportamenti volti a frustrare l'effettività e l'efficacia delle regole imposte, pur senza infrangerle. Parte della dottrina ritiene invece che se la locuzione «prescrizioni imposte» si riferisce a quelle dettate dal comma 2-quater dell'art. 41-bis ord. penit. «risulta difficile capire cosa intenda il legislatore riferendosi a comunicazioni che le eludono» sicché l'unico modo per dare significato all'espressione sarebbe quello di «interpretarla nel senso che le comunicazioni devono eludere non le "prescrizioni imposte", ma lo scopo che si vuole raggiungere attraverso l'applicazione di tali prescrizioni».

In definitiva, il reato è a forma libera potendosi il "fatto" concretizzare in qualsiasi modo. La condotta di "agevolazione" deve, però, raggiungere lo scopo per cui è posta in essere e quindi consentire che la comunicazione venga "recapitata" al destinatario (6). "Comunicare con altri": è questo il momento consumativo della fattispecie. 

É chiaro, quindi, che accanto all'attività dell'intermediario, autore del fatto tipico, dovrà sempre individuarsi un altro soggetto "necessario", con il ruolo di destinatario. In assenza di quest'ultimo o nel caso in cui il messaggio non venisse recapitato ci troveremmo in un'ipotesi tentata. Questo schema, però, potrebbe subire, nella prassi, delle modifiche: nei casi in cui, per esempio, il destinatario finale del messaggio sia lo stesso soggetto che riceve la comunicazione direttamente dal detenuto. Quando, cioè, coincidano intermediario e destinatario. In queste ipotesi il reato si consumerà anticipatamente, nel momento in cui l'intermediario avrà fatta propria la comunicazione vietata. L'unico soggetto che non potrà assumere il ruolo di autore è il detenuto la cui attività comunicativa viene agevolata.

Sotto il profilo soggettivo, inoltre, corre l'obbligo di evidenziare la discrasia tra la rubrica della norma ed il suo disposto poiché nella prima si parla tanto di detenuti quanto di internati mentre nella seconda questi ultimi non vengono menzionati. Se ciò sembra frutto di un lapsus del legislatore, non si nega che l'eventuale applicazione del principio rubrica non facit legem nonché del divieto (in materia penale) di analogia in malam partem implicitamente sancito dall'art. 25 Cost. circoscriverebbe l'ambito operativo del reato in parola alla sola ipotesi di agevolazione dei detenuti e non anche a quella degli internati. E' da escludersi, comunque, che il Legislatore, con l'indicazione esplicita di una sola delle summenzionate categorie, abbia in realtà inteso riferirsi ad entrambe.

La consumazione avviene nel momento e nel luogo in cui la comunicazione viene a conoscenza del destinatario ferma l'integrazione del tentativo in caso contrario.

Quanto all'elemento psicologico del reato, è richiesto il dolo generico e, in particolare, è necessario per la configurazione del delitto che l'agente sia consapevole della sottoposizione del detenuto al regime speciale e del fatto che la comunicazione di cui si fa latore od agevolatore avvenga in elusione delle prescrizioni all'uopo imposte.

Sebbene la fattispecie in questione rientri tra i reati comuni dal momento che può essere commesso da "chiunque" tiene il comportamento sanzionato, l'ipotesi circostanziata prevista al secondo comma è ascrivibile al novero dei reati propri. E' prevista, infatti, la reclusione da due a cinque anni se a commettere il fatto è un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio ovvero un soggetto che esercita la professione forense. Tale aggravante si giustifica con «l'accresciuto disvalore penale di una condotta posta in essere da autori qualificati, tenuti al doveroso rispetto non solo delle leggi penali, ma anche delle regole comportamentali previste per la loro funzione (7)».

L'art. 391-bis c.p. da un lato prevede la reclusione da uno a quattro anni nel caso in cui l'intermediario sia un soggetto legato al recluso da rapporti familiari o di parentela, dall'altro aumenta la pena - da due a cinque anni di reclusione - nell'ipotesi in cui la condotta delittuosa sia posta in essere da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio o da un soggetto che esercita la professione forense. La più restrittiva disciplina dei controlli sui colloqui dipende secondo autorevole dottrina da «una qual certa diffidenza nei confronti dei familiari, che potrebbero fungere da intermediari con l'organizzazione criminale (8)», emergendo, al contempo, una specie di "fiducia preventiva" rispetto al difensore. Infatti, «l'eventualità che dette persone, legate al detenuto da un rapporto di prestazione d'opera professionale, si prestino a fungere da tramite fra il medesimo e gli altri membri dell'organizzazione criminale, se non può essere certamente esclusa a priori, neppure può essere assunta ad una regola di esperienza, tradotta in enunciato normativo: apparendo, sotto questo profilo, la situazione significativamente diversa da quella riscontrabile in rapporto ai colloqui con persone legate al detenuto da vincoli parentali o affettivi, ovvero con terzi non qualificati» (9). Basterebbe a garantire, così, la correttezza dell'esercente la professione forense, nel momento del colloquio con il proprio assistito detenuto, «il rispetto di un codice deontologico nello specifico campo dei rapporti con la giustizia» e «la vigilanza disciplinare dell'ordine di appartenenza». In realtà, l'aggravamento di pena previsto dal co. 2 dell'art. 391-bis c.p. si giustifica perché le guardie penitenziarie, i dipendenti dell'amministrazione penitenziaria, gli educatori e i difensori (10) sono interessati dalle restrizioni del regime dell'art. 41-bis ord. penit. solo in misura molto marginale. E proprio per questa ragione, in caso di incriminazione, andrebbero incontro ad un trattamento sanzionatorio più rigoroso. Aggravamento di pena, inoltre, giustificato dal maggiore disvalore penale percepito quando la condotta viene posta in essere da autori qualificati, tenuti al doveroso rispetto non solo delle leggi penali, ma anche delle regole comportamentali previste per la loro funzione: gli avvocati come interlocutori "esterni" del detenuto, i dipendenti dell'amministrazione penitenziaria come interlocutori "interni" del recluso. Il co. 2 dell'art. 391-bis c.p., pur previsto nella forma di circostanza aggravante e nonostante la descrizione del fatto di reato venga contemplata nella prima parte della fattispecie, rappresenta il vero "fulcro" del delitto de quo. Infatti, come tutti i reati di agevolazione la condotta tipica dovrebbe essere posta in essere da un soggetto qualificato (11): in questo modo, la particolare qualificazione dell'intermediario consentirebbe di individuare non solo le ipotesi più gravi, ma anche di ricondurre la fattispecie all'interno degli schemi classici dei delitti di agevolazione.

Infine, corre l'obbligo di porre l'attenzione alla casistica concreta e bisogna evidenziare che dal 2009 ad oggi non si sono avute incriminazioni ex art. 391 -bis c.p. e non si registra giurisprudenza di legittimità in merito. Prima del 2009 la giurisprudenza ebbe modo di prendere cognizione di alcuni episodi di intermediazione tra detenuti sottoposti al regime speciale ed altri membri della consorteria criminale, qualificando i fatti nei termini del cd. concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso ex artt. 110 e 416-bis cod. pen. La Cassazione, in particolare, ha condannato per il suddetto reato un avvocato che per conto dei fratelli Graviano, leaders dell'omonima famiglia mafiosa di Cosa nostra, «si industriava a tenere contatti tali da assicurare non solo la gestione e la redditività del cospicuo patrimonio della cosca, ma addirittura di far sì che l'attività illecita del sodalizio continuasse a mantenere e ad alimentare quel patrimonio, facendosi, all'uopo, latore di messaggi criptati provenienti dalle carceri». Gli ermellini in quell'occasione sottolinearono «che il contributo dell'avvocato fosse tutt'altro che marginale lo dimostra la circostanza che i Graviano erano soggetti al rigoroso regime dell'art. 41 bis, caratterizzato, come è noto, da particolari restrizioni, con evidenti difficoltà di comunicare con l'esterno in altro modo che non fosse il veicolo di trasmissione offerto dal legale, in occasione dei periodici colloqui in carcere (e ritenuto, ovviamente, più affidabile e sicuro di quanto non potesse essere il colloquio personale mensile con i familiari (12))».

Anche in un altro caso la Cassazione ha optato per l'utilizzo del concorso esterno per punire i congiunti di un affiliato ad una cosca, detenuto ma non sottoposto al regime detentivo del 41-bis ord. penit., che portavano dentro e fuori dal carcere messaggi diretti ad altri membri dell'associazione mafiosa (13) o per condannare il soggetto incaricato della funzione di corriere tra un latitante ed altri esponenti del clan in libertà (14). È vero che la conformazione strutturale dell'art. 391-bis c.p. dovrebbe riguardare situazioni diverse da quelle sottoposte al vaglio della Cassazione, sia per ciò che attiene alla sottoposizione al regime detentivo speciale, sia per quanto riguarda la violazione di un provvedimento dell'autorità che è stato applicato proprio in considerazione di particolari esigenze di prevenzione speciale, ma vi è il rischio di preferire l'utilizzo del concorso esterno per regolare le ipotesi di comunicazioni da e per il carcere. In alcune ipotesi è stato, addirittura, configurato il delitto di partecipazione all'associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p. nella «condotta di colui che assolve il compito di far circolare ordini e informazioni tra accoliti detenuti ed accoliti in libertà»15.

In altre parole, la fattispecie concreta che è stata delineata dal legislatore del 2009 non è che andava esente da processi e condanne, solo che i magistrati sussumevano dette condotte nelle categorie giuridiche del favoreggiamento o del concorso, quest'ultimo, in particolare, considerato strumento giudiziale particolarmente efficace per venire incontro alla «preoccupazione dei magistrati antimafia di privilegiare, tra più qualificazioni tecnico-giuridiche possibili dei fatti oggetto di vaglio, quella più idonea a veicolare messaggi pedagogici alla pubblica opinione anche in chiave di etichettamento simbolico del disvalore politico o etico-sociale che, al di là della lesione giuridica strettamente intesa, si ritiene insito nei fatti in questione». In questo modo, infatti, «qualificare un certo fatto concorso esterno, piuttosto che ad esempio favoreggiamento sia pure aggravato, può essere considerata da parte di un magistrato di merito propenso alla stigmatizzazione simbolica opzione preferibile proprio allo scopo di sottolineare che l'autore del fatto merita di essere condannato per il suo colpevole sostegno alla mafia quasi come se fosse un mafioso (16)».

Sotto il profilo giurisprudenziale è bene altresì segnalare una recente sentenza della Sezione II della Corte di Cassazione del 20 luglio 2018, secondo cui:

«è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 391-bis c.p., sollevata per contrasto con l'articolo 3 della Costituzione (in riferimento agli artt. 386, 390 e 391 c.p.), nella parte in cui non prevede che la pena è diminuita se il colpevole è un prossimo congiunto. La ratio dell'art. 391-bis c.p. risiede nell'esigenza di evitare i collegamenti tra il soggetto detenuto in carcere e sottoposto al regime penitenziario di cui all'art. 41-bis l. n. 354 del 1975 ed altri membri di un medesimo sodalizio criminale ancora in libertà od a loro volta ristretti; per tale ragione, le condotte dei prossimi congiunti che fungono da intermediari tra il recluso ed il mondo esterno non sono rivolte ad esclusivo vantaggio del congiunto ristretto, come nei casi previsti dagli artt. 386, 390 e 391 c.p. - il che giustifica la prevista attenuazione della pena edittale - bensì anche del sodalizio di volta in volta enucleato».

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1)    F. RAMACCI, G. SPANGHER (a cura di), Il sistema della sicurezza pubblica. Commento alla legge 15 luglio 2009, n. 94 (disciplina in materia di sicurezza pubblica), aggiornato dalle novità introdotte dalla "Legge finanziaria 2010", dal d.l. 4 febbraio 2010, n. 4 e dal Protocollo "mille occhi sulle città" dell'11 febbraio 2010, Milano, 2010 p. 370

2)    I. PALMA, La legislazione antimafia dopo la legge 15 luglio 2009 n. 9, in Riv. pen., 2010, f.2, p. 112

3)   Più precisamente, secondo le nozioni tipiche del diritto penale, la fattispecie di cui all'art. 391-bis cod. pen. è un cd. reato plurisoggettivo improprio in quanto uno soltanto degli agenti è punibile incombendo solo su di esso l'obbligo giuridico di non tenere il comportamento, F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2011, p. 553; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, V ed., Bologna, 2012, p. 441

4) D. MANZIONE, Le novità di rilevanza penale dell'ennesima legge sulla sicurezza pubblica (L. 15.7.2009 n. 94), in L. p., 2009, p. 587

5) FRANCESCO SIRACUSANO L'art. 391-bis c.p. e la contiguità alla mafia, op. cit.

6)   FIANDACA -MUSCO, op. cit., p. 441

7)   F. SIRACUSANO, op. cit., p. 19

8)   CESARIS, Esigenze di ordine e sicurezza e ordinamento penitenziario, Pavia, 2010, p. 16

9)   MORGANTE, Commento art. 2, co. 26, l. 15 luglio 2009, n. 94, cit., 303.

10)   CESARIS, Esigenze di ordine e sicurezza e ordinamento penitenziario, cit., 17

11)   MORGANTE, Commento art. 2, co. 26, l. 15 luglio 2009, n. 94, cit., 302.

12)   Cass., Sez. V, 12 febbraio 2003, Graviano e altri, n. 20072, in Dir. e giust., 2003, f. 21, p. 31

13)   Cass., Sez. I, 22 novembre 2006, Alfano e altri, n. 1073, in Mass. Uff., n. 235855

14)   Cass. Sez. I, 2 gennaio 2009, Sarracino, n. 54, in Riv. Pol., 2009, 779

15)   Cass. Sez. II, 28 febbraio 2013, Bonaddio, n. 13506, in Mass. Uff., n. 255731

16)   FIANDACA, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica. Considerazioni sollecitate dalla requisitoria del p.g. Francesco Iacoviello nel processo Dell'Utri, in Dir. pen. cont., 2012, 1, 253