LE SEZIONI UNITE SULLA DISCIPLINA DI UTILIZZAZIONE DELLE INTERCETTAZIONI IN UN PROCEDIMENTO DIVERSO DA QUELLO PER IL QUALE ERANO STATE DISPOSTE

01.06.2020

IL DIVIETO EX ART. 270, COMMA 1, C.P.P. NON OPERA NEL SOLO CASO IN CUI FRA I REATI CONTESTATI  NEI DUE PROCEDIMENTI SUSSISTA UN RAPPORTO DI CONNESSIONE EX ART. 12 C.P.P., FATTO SALVO IL RISPETTO DEI LIMITI DI AMMISSIBILITA' DI CUI ALL'ART. 266 C.P.P. 

Dott.ssa Eleonora Ardito
Dott. Francesco Giovannangelo

Con la sentenza nr. 51 del 2020, le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono intervenute al fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale in ordine alla portata operativa del divieto sancito dall'art. 270, comma I, c.p.p. che, com'è noto, sancisce il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni telefoniche in un procedimento diverso rispetto a quello per il quale sono state autorizzate, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di reati per cui è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza (1). In particolare, il quesito posto dall'ordinanza di rimessione concerneva la questione dell'estensibilità del divieto in parola ai reati non individuati nel provvedimento di autorizzazione dell'autorità giudiziaria, ma emersi durante le operazioni captative e privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con le ipotesi di reato oggetto dell'intercettazione ab origine disposta (2).

L'iter motivazionale proposto dalla Suprema Corte prende le mosse dall'analisi del quadro costituzionale di riferimento e dalla relativa giurisprudenza della Corte Costituzionale.

L'utilizzo degli strumenti di captazione di comunicazioni e conversazioni, sebbene costituisca un mezzo di ricerca della prova efficace nella repressione di particolari tipologie di reati, comporta una fisiologica invasione della sfera privata dei soggetti sottoposti all'intercettazione ed una conseguente compressione di libertà costituzionalmente garantite. Il conflitto tra interessi contrapposti che discende dall'utilizzo delle intercettazioni − da un lato la tutela della libertà individuale, dall'altra l'esigenza di assicurare la repressione dei reati − trova un contemperamento nell'art. 15 della Costituzione, che sancisce l'inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza (e di ogni altra forma di comunicazione) e, nei soli casi previsti dalla legge, ne consente una limitazione per mezzo di un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria. Nell'ottica del bilanciamento operato dalla giurisprudenza costituzionale, il diritto a una comunicazione libera e segreta, in ragione della sua afferenza al nucleo dei diritti della personalità inviolabili ai sensi dell'art. 2 Cost., può subire restrizioni solo in via eccezionale, ovvero in presenza di un interesse pubblico, primario e costituzionalmente rilevante il cui soddisfacimento costituisce esigenza inderogabile, quale ad esempio la prevenzione e la repressione dei reati.

La restrizione alla libertà e alla segretezza della corrispondenza si giustifica dunque solo se necessaria al perseguimento del su menzionato interesse inderogabile e in quanto avvenga nel rispetto della duplice garanzia della riserva dei legge e dell'autorizzazione disposta con provvedimento puntualmente motivato dell'autorità giudiziaria (3).

La disciplina costituzionale si riflette nell'impianto del codice di procedura penale.

L'art. 270, comma I, c.p.p. costituisce infatti norma eccezionale che conferma la regola − poiché ammette l'utilizzo probatorio delle risultanze delle captazioni eseguite in procedimenti diversi rispetto a quelle per le quali erano state ab origine autorizzate − ma siffatta deroga è giustificata solo in relazione ai reati per cui è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza (4), presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale: il ridotto ambito di operatività della disposizione in esame risponde alla ratio di evitare che l'utilizzo di elementi emersi da intercettazioni disposte in procedimenti diversi possa ridurre il provvedimento autorizzativo del giudice ad una mera "autorizzazione in bianco", con la conseguente elusione del controllo giurisdizionale richiesto dall'art. 15 Cost., posto a garanzia dell'inviolabilità della libertà e segretezza delle comunicazioni.

L'autorizzazione giudiziale, nelle forme del decreto motivato, è infatti non solo funzionale a legittimare il ricorso ad un mezzo di ricerca della prova particolarmente intrusivo, ma serve a circoscrivere l'utilizzazione di quanto emerso nel corso delle captazioni ai soli soggetti sottoposti ad indagine e per i fatti costituenti reato per cui si procede: ne consegue l'inutilizzabilità, ribadita dalla giurisprudenza di legittimità anche nella vigenza del precedente codice di rito, del materiale non riconducibile all'attività intercettiva autorizzata.

Fissati questi punti cardine e dopo aver richiamato il quadro costituzionale di riferimento nonché le indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale sul punto, il giudicante passa all'analisi dei diversi indirizzi proposti dalla giurisprudenza di legittimità (5).

Il primo (6)- maggioritario - orientamento, al fine di individuare la nozione del "diverso procedimento" di cui all'art. 270 c.p.p., fa leva su un criterio di natura sostanzialistica, fissando alcuni profili essenziali: in primis precisa che la nozione de qua non coincide con quella di "diverso reato", essendo quest'ultima meno ampia rispetto a quella in esame (7). In secundis, in aperto contrasto con quanto ritenuto dal secondo orientamento, afferma che la nozione di "procedimento diverso" non può essere ricollegata a un dato di ordine meramente formale, quale il numero di iscrizione nell'apposito registro della notizia di reato, posto che la formale unità dei procedimenti, sotto un unico numero di registro generale, non può fungere da schermo per l'utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra di loro procedimenti privi di collegamento reale (8). Nell'ottica di chi aderisce a tale orientamento ciò che rileva al fine di escludere la diversità dei procedimenti e, con essa, il divieto di utilizzazione di cui all'art. 270, comma I, c.p.p., è il legame tra la notizia di reato in relazione alla quale è stata autorizzata l'intercettazione e quella emersa dai risultati dell'intercettazione stessa, delineato facendo riferimento ad indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato ab origine.

Quanto al secondo orientamento, la Corte precisa che esso fa leva su una nozione formale di"procedimento", identificato in quanto contrassegnato da un determinato numero di iscrizione nei registri delle notizie di reato. Conseguenza di tale impostazione è che qualora l'intercettazione sia legittimamente autorizzata all'interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all'art. 266 c.p.p., i suoi esiti sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui emerga la conoscenza dall'attività di captazione, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l'utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall'art. 270 c.p.p., e, cioè, all'indispensabilità ed all'obbligatorietà dell'arresto in flagranza (9). Nella prospettiva offerta da tale orientamento il limite dell'operatività del divieto di utilizzazione ex art. 270, comma I, c.p.p. è segnato dal dato dell'unitarietà iniziale del procedimento: da ciò deriva che la diversità del procedimento ex art. 270 c.p.p. viene "ricollegata a dati meramente formali, quali la materiale distinzione degli incartamenti relativi a due procedimenti o il loro diverso numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato (10)".

Richiamati i caratteri essenziali del secondo orientamento la Corte espone le motivazioni per le quali lo stesso non può essere condiviso: in primis sottolinea che, com'è agevole riscontrare, nel lessico del codice di procedura penale il riferimento al procedimento non si presenta in modo univoco: talvolta tale termine viene utilizzato in contrapposizione al termine "processo"11, altre volte con riferimento al reato commesso da una persona (v. art. 12 c.p.p.), di tal ché, in assenza di una specifica spiegazione, il ritenere che l'art. 270 c.p.p. nel menzionare il "diverso procedimento" faccia riferimento all'una o all'altra accezione si risolve in una mera petizione di principio e, come tale, inaccettabile.

In secundis tale percorso argomentativo non risulta compatibile con il dato Costituzionale, contrastando con il dettato dell'art. 15 nella parte in cui delinea la funzione dell'autorizzazione giudiziale, poiché − come affermato dagli stessi Ermellini − "svincolata da qualsiasi legame sostanziale tra il reato per il quale il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato e l'ulteriore reato emerso dai risultati della intercettazione, la definizione della portata del divieto probatorio ex art. 270 co. 1, c.p.p. viene schiacciata sul "contenitore dell'attività di indagine" e, di conseguenza, delineata sulla base di fattori relativi alla "sede" procedimentale (unitaria o separata) del tutto casuali".

Esclusa la possibilità di aderire al secondo indirizzo la Corte passa all'analisi del terzo, ed ultimo, orientamento, che tra i tre, oltre ad essere il più risalente nel tempo, è anche il più restrittivo. Tale indirizzo ritiene che l'art. 270, comma I, c.p.p. vieti che il risultato delle intercettazioni possa essere utilizzato per la prova di un reato che presenti elementi descrittivi del fatto in concreto differenti rispetto a quello per il quale le intercettazioni erano state legittimamente disposte.

Nell'ottica di tale orientamento si instaura un'inscindibile correlazione tra il "procedimento" e la singola notizia di reato relativa ad un determinato, specifico fatto-reato: a sostegno di tale visuale viene richiamato l'art. 335 c.p.p., ritenuto idoneo a offrire la corretta accezione del termine "procedimento".

Neanche tale indirizzo viene ritenuto condivisibile dalla Corte, per le seguenti motivazioni: in primis viene richiamata la critica già mossa al secondo orientamento, con riferimento alle diverse accezioni in cui il termine "procedimento" viene utilizzato nel codice di procedura penale.

In secundis si sottolinea che l'adesione a tale orientamento porterebbe a conseguenze paradossali, come quella di ritenere diverso procedimento "quello iscritto nei confronti di una persona nota per un certo reato a seguito delle intercettazioni disposte in un procedimento contro ignoti per quel medesimo fatto-reato» oppure «quello nuovamente iscritto a seguito di riapertura delle indagini ex art. 414, comma 2, c.p.p. (12)": esito disallineato rispetto alla disciplina codicistica.

In ultimo la Corte osserva che la stessa equazione procedimento/reato è smentita, proprio sullo specifico terreno della disciplina delle intercettazioni, dal comma 1-bis dell'art. 270 c.p.p., il quale stabilisce che i risultati delle intercettazioni operate con un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile "non possono essere utilizzati come prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione". Da ciò si evince che solo per il captatore informatico - e, non per le intercettazioni, per così dire,"tradizionali" - tale regime viene delineato con riguardo al "reato" per il quale è intervenuto il provvedimento autorizzatorio, di talché viene meno il presupposto sul quale si basa il terzo orientamento.

Tutto ciò premesso, dopo aver richiamato il quadro costituzionale di riferimento nonché le indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale sul punto, dato conto delle ragioni per le quali non è possibile condividere né il secondo né il terzo orientamento, è ora possibile analizzare la soluzione proposta dagli Ermellini.

Le Sezioni Unite affermano di condividere l'impostazione di fondo del primo orientamento, dal quale tuttavia si discostano in quanto ritengono che il nesso fra i reati successivamente emersi e quello (o quelli) oggetto di originaria autorizzazione non possa essere integrato, senza violare i principi e le garanzie costituzionali alla base dell'istituto, nelle ipotesi di collegamento investigativo previste dall'art. 371, co. 2, lett. b) e c) c.p.p. in quanto le ipotesi ivi previste - pur eterogenee tra loro - rispondono a esigenze di efficace conduzione delle indagini del tutto occasionali, e non presuppongono quel necessario legame originario e sostanziale che consentirebbe di ricondurre anche il reato oggetto di collegamento investigativo all'originaria autorizzazione.

Nell'impostazione fornita dalle Sezioni Unite tale legame di carattere sostanziale è invece garantito nelle ipotesi di connessione fra procedimenti ex art. 12 c.p.p., procedimenti tra i quali esiste una relazione in virtù della quale la regiudicanda oggetto di ciascuno viene, anche in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri.

La parziale coincidenza della regiudicanda oggetto dei procedimenti connessi e, dunque, il legame sostanziale − e non meramente processuale − tra i diversi fatti-reato consente di ricondurre ai fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede anche quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione escludendo il rischio che l'autorizzazione giudiziale fornita ab origine si tramuti in un'autorizzazione in bianco.

Per i motivi sopra esposti la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, con tale provvedimento ha inteso affermare il seguente principio di diritto: "Il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni - salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza - non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge".

Gli ermellini hanno chiaramente inteso dare una svolta in senso garantista alla disciplina dell'utilizzabilità delle intercettazioni in procedimento diverso, dando il giusto riconoscimento alla necessità di tutelare i diritti fondamentali − a partire dalla Costituzione secondo la lettura promossa dalla Corte costituzionale − e riaffermando la centralità della funzione del provvedimento autorizzativo del giudice, a cui il legislatore ha demandato il compito di garantire che detti valori non vengano, in concreto, pregiudicati.

_____________

1) È doveroso dare notizia della recente novella legislativa che ha interessato l'art. 270 comma 1, c.p.p. che è stato modificato per effetto del D.L. 30 dicembre 2019, nr. 161, convertito con modificazioni dalla L. 28 febbraio 2020, nr.7 e nell'attuale formulazione sancisce che "i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti ed indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio arresto in flagranza e dei reati di cui all'articolo 266, comma 1".

2) La questione trae origine da intercettazioni telefoniche che − inizialmente disposte nell'ambito di indagini avviate per il reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio ex art. 326 comma III c.p. a carico di due soggetti − avevano fatto emergere elementi di prova a carico di un terzo soggetto per i diversi reati di peculato e falsità ideologica e materiale in atto pubblico di cui agli artt. 476 e 479 c.p.p.

La Corte di Appello di Brescia, in parziale conferma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Bergamo, aveva condannato questi ultimi anche sulla base dei risultati delle predette intercettazioni, ravvisando, tra le ipotesi di reato loro ascritte e i reati originariamente oggetto di captazione nel diverso procedimento, la sussistenza di un collegamento probatorio ed investigativo. L'imputato proponeva ricorso avverso la condanna denunciando, fra gli altri motivi, l'inosservanza del divieto imposto dall'art. 270, co. 1, c.p.p., in quanto riteneva che fra i delitti di peculato e falso in atto pubblico, da un lato, e il reato di rivelazione di segreto d'ufficio, dall'altro, non vi fosse alcun nesso di tipo oggettivo, finalistico o probatorio.

3) Corte cost., sent. nr. 366 del 1991 e 34 del 1973.

4) Alla luce della novella normativa (v. nota 1) tale deroga è ammessa anche con riferimento ai reati di cui all'articolo 266, comma 1, c.p.p., a conferma dell'eccezionalità dell'utilizzabilità probatoria del materiale acquisito tramite intercettazioni disposte in altro procedimento, consentita solo ai fini dell'accertamento di ipotesi delittuose particolarmente gravi.

5È appena il caso di precisare che non è in discussione il consolidato orientamento secondo cui il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte, attiene solo alla valutazione di tali risultati come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre dagli stessi notizie di nuovi reati, quale punto di partenza di nuove indagini. Ciò su cui ci si interroga è se gli stessi possano essere utilizzati .

6) A tale orientamento avevano già in precedenza aderito le stesse Sezioni Unite con la sentenza nr. 32697 del 26/06/2014, (Floris) sostenendo che «la, prevalente e più recente, giurisprudenza di legittimità ha ancorato la nozione di procedimento diverso ad un criterio di valutazione sostanzialistico, che prescinde da elementi formali, quale il numero di iscrizione del procedimento nel registro delle notizie di reato, in quanto considera decisiva, ai fini della individuazione della identità dei procedimenti, l'esistenza di una connessione tra il contenuto della originaria notizia di reato, per la quale sono state disposte le intercettazioni, ed i reati per i quali si procede sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico».

7) Ex plurimis, Cass. Pen, Sez. 6, nr. 1972 del 16/05/1997, Pacini Battaglia, Rv. 210044; Sez. 2, nr. 9579 del 19/01/2004, Amato, Rv. 228384; Sez. 4, nr. 7320 del 19/01/2010, Verdoscia, Rv. 246697; più di recente, Sez. 3, nr. 52503 del 23/09/2014, Sarantsev, Rv. 261971.

8) Cass. Pen., Sez. III, nr. 33598 del 08/04/2015, Vasilas.

9) Ex plurimis, Sez. 2, nr. 9500 del 23/02/2016, De Angelis, Rv. 267784; Sez. 5, nr. 26817 del 04/03/2016, Iodice, Rv. 267889; Sez. 6, nr. 41317 del 15/07/2015, Rosatelli, Rv. 265004.

10) Ex multis Sez. 3, nr. 1208 del 14/04/1998, Romagnolo, Rv. 210950; conf. Sez. 1, nr. 2930 del 17/12/2002, dep. 2003, Semeraro, Rv. 223170

11) Al fine di delineare una netta scansione tra il procedimento, che si articola nelle indagini preliminari, e il processo,che nasce quando il pubblico ministero imbocca la strada della formulazione dell'accusa rendendo ineludibile la pronuncia giurisdizionale.

12) Sentenza in esame, v. pg. 21.