TRASFERIMENTO: IL LAVORATORE PUO' RIFIUTARLO?

01.10.2022

Simone Zinni

Prima di dare risposta a questo interrogativo, occorre soffermarsi brevemente sul concetto e sulle condizioni del trasferimento.

Quando si parla di "trasferimento del lavoratore" non si fa riferimento al cambiamento delle mansioni, bensì allo spostamento del medesimo in una sede diversa purché riguardi la stessa azienda/unità produttiva.

Invero, oltre alla dottrina anche la giurisprudenza si è pronunciata in materia sostenendo come, affinché si possa parlare di trasferimento, è necessario che la sede geografica di destinazione (dove rendere la prestazione) muti in misura apprezzabile (Cass. civ., Sez., lavoro, 12.11.2021, n. 34014) e che per "unità produttiva" debba intendersi qualsiasi entità aziendale "che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in esse si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività produttiva aziendale" (Tribunale di Roma, decisione del 12.12.2001).

La fattispecie che qui si tratta "ricade" nel c.d. potere direttivo riconosciuto al datore di lavoro il quale ne fa uso al fine di soddisfare le varie esigenze aziendali mediante assegnazione del personale dipendente.

Il legislatore ha tipizzato questa particolare disciplina all'art. 2103 del codice civile. Infatti, al comma 8 si dice che il trasferimento può avvenire da un'unità produttiva all'altra qualora sussistono comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive; viene da sé che in caso contrario nessun potere ha il datore di ricorrere al trasferimento del lavoratore.

Tra le esigenze richieste dalla norma, la giurisprudenza annovera diverse ipotesi: il caso in cui la presenza di un determinato dipendente (nell'unità produttiva originale) non risulta più utile, o, date le competenze acquisite nel corso del tempo è più opportuno collocarlo in un settore diverso, oppure, i casi di incompatibilità aziendale quando, cioè, il rapporto tra dipendenti è divenuto così conflittuale da determinare una disfunzione o disorganizzazione dell'unità produttiva anche se non strettamente connesso all'ambito lavorativo.

In merito alle modalità si è affermato, sia in dottrina che in giurisprudenza, la non necessaria sussistenza della forma scritta, di un termine di preavviso e, in ultimo, di una specifica indicazione dei motivi circa il trasferimento del dipendente.

Se da una parte però vi sono alcuni contratti collettivi che possono richiedere la presenza dei requisiti (almeno) di forma e termine di preavviso, dall'altra è perfettamente chiaro che in seguito alla comunicazione di trasferimento, il datore non è obbligato a comunicare i motivi per i quali ha esercitato il suo potere. Questa scelta ha dato luogo a non pochi scompigli tanto che la giurisprudenza è intervenuta (anche con diverse pronunce) per porre fine all'annosa questione sancendo che: "Non è necessario che vengano contestualmente enunciate le ragioni del trasferimento, atteso che l'art. 2103, nella parte in cui dispone che le ragioni tecniche, organizzative e produttive del provvedimento suddetto siano comprovate, richiede soltanto che tali ragioni, ove contestate, siano effettive e di esse il datore di lavoro fornisca la dimostrazione. Pertanto, l'onere dell'indicazione delle ragioni del trasferimento, la inottemperanza al quale determina l'inefficacia sopravvenuta del provvedimento, sorge a carico del datore di lavoro soltanto nel caso in cui il lavoratore ne faccia richiesta - dovendosi applicare per analogia la disposizione di cui all'art. 2, L. 15.7.1966, n. 604 - fermo restando che, al pari di quanto avviene in tema di licenziamento, la comunicazione non riguarda anche le fonti di prova dei fatti giustificativi del trasferimento" (Cass. civ., Sez. Unite, 15.07.1986, n. 4572; si veda anche Cass. civ., Sez. lavoro, 15.05.2004, n. 4662 e Cass. civ., Sez. lavoro, 14.01.2019, n. 614). Dunque, l'obbligo di motivazione, in relazione alle esigenze ex art. 2103 c.c., sorge solo ove queste siano richieste dal lavoratore altrimenti, afferma la Corte, alcunché è tenuto ad indicare il datore.

Fatte queste doverose premesse ci soffermiamo, ora, sul punto centrale di questo articolo.

Partiamo sottolineando che vi sono delle ipotesi in cui il lavoratore (che già da tempo si è stabilizzato in una determinata unità produttiva) non abbia alcuna intenzione di spostarsi nella nuova sede di lavoro facendo sì che questa sua "non intenzione" si traduca in un vero e proprio rifiuto che, come vedremo, ha non poche conseguenze.

Difatti, al rifiuto di trasferirsi segue, nella maggior parte dei casi, il licenziamento per giusta causa sulla base dell'assenza ingiustificata sul posto di lavoro. Ecco che qui ci si domanda se: "Può il lavoratore rifiutare il trasferimento?" A questo interrogativo ci ha fornito una risposta la giurisprudenza.

In particolare, chiaro è che il lavoratore non può rifiutare il trasferimento qualora quest'ultimo sia stato adottato nel rispetto di quanto previsto dall'art. 2103 c.c. (salvo casi particolari) e che, quindi, sia legittimo. Ma può opporsi in caso di illegittimità?

La risposta è in parte affermativa.

La Cassazione, con una pronuncia recente ha stabilito che il lavoratore può rifiutare di adempiere la prestazione (richiamando, dunque, la disciplina dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.), ma che tale opposizione/rifiuto non opera automaticamente. Invero, "In caso di trasferimento adottato in violazione dell'art. 2103 c.c., l'inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell'art. 1460 c.c., comma 2, alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede" e, per ravvisare effettivamente se il rifiuto del lavoratore sia stato manifestamente contrario al principio di buona fede, il giudice (di merito) dovrà in giudizio effettuare un bilanciamento fra gli opposti interessi in conflitto e "la relativa verifica dovrà essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie" (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza 10/02/2022, n. 4404).

In conclusione, si può affermare che per controbilanciare questo potere "direttivo/unilaterale" del datore, la disciplina del trasferimento è divenuta sempre più garantista verso il lavoratore e che, alla luce delle pronunce giurisprudenziali, il rifiuto del lavoratore di assumere servizio presso la sede di destinazione deve essere proporzionato all'inadempimento del datore di lavoro.